Il romanzo del canadese Yann Martel vincitore del Man Booker Prize, Vita di Pi, è uno di quei rari oggetti formidabili che catalizzano l'interesse di intenditori e critici, ma raggiungono anche un pubblico vastissimo, nell'ordine di svariati milioni; il tutto ancor più sorprendente considerando i temi non semplici del libro, il rapporto uomo-natura, la capacità di resistenza dello spirito umano, la religione, la fede nel rapporto con tradizione narrativa. Ma il romanzo di Martel è anche una singolare avventura, ed è naturale che, nel suo passaggio al medium filmico, grazie alla tenacia di produttori che hanno visto il progetto arenarsi più volte, e grazie all'impegno di uno dei registi più versatili e coraggiosi di cui il mondo dell'entertainment possa menare vanto, Vita di Pi diventi un film coinvolgente, spettacolare e pionieristico. Si contano sulle dita di una mano le pellicole che, nell'era del revival del 3D, ne abbiano realizzato appieno le incredibili possibilità: il film di Ang Lee è indubbiamente uno di questi. A ciò si aggiungono effetti speciali praticamente perfetti, e lo spettacolo nello spettacolo: il maestoso e feroce Richard Parker, un magnifico esemplare di tigre del Bengala ricostruito e gestito interamente in CGI.
E' soprattutto sugli aspetti tecnici e sulla stereoscopia che si è concentrato l'incontro parigino della stampa italiana con il regista doppio premio Oscar, senza dimenticare che il film è molto più di questo: come il romanzo di Martel, di cui abbraccia appieno la profonda e intima natura, è un invito elettrizzante e commovente a vedere il miracoloso nella vita e nel mondo. A credere l'incredibile.
Mr. Lee, come mai ha deciso di realizzare un film sulla base del romanzo di Yann Martel? Ang Lee: Il libro mi era piaciuto moltissimo, ma quando lo lessi non pensai affatto che fosse possibile farne un film. Un film che si svolge quasi interamente sull'acqua, con in più una tigre del Bengala adulta. Difficile immaginare qualcosa di più arduo! La storia non manca di potenzialità cinematografiche, ma concretizzarle in maniera credibile era un'impresa apparentemente impossibile. Dopo la proposta della Fox di fare il film, però, ho iniziato a pensare a come riuscirci, e pian piano mi sono convinto a tentare.
Suraj Sharma, il suo protagonista, è un giovane esordiente. Avete avuto dei problemi con tutte le scene in cui doveva interagire con un surrogato tipo una palla da tennis che rappresentava la tigre che sarebbe poi stata inserita digitalmente in seguito?Francamente no. Quel ragazzo è un enorme talento naturale, e credo che per un vero talento creativo l'immaginazione non è un problema e il fisico si comporta di conseguenza. C'è da dire che non avrei dato l'ok al progetto se non avessi prima trovato Suraj, se non fossi riuscito a immaginarlo alle prese con la tigre: dovevo vedere qualcosa. L'aspetto più interessante con un giovane talento è il fatto che non hanno precedenti, sono istintivi, si aprono all'immaginazione e sono più bravi in scene che possono essere più difficili per un attore navigato.
Ci sono scene trascinanti nel film, in cui il pubblico vive le emozioni di Pi, e in questo la sua innocenza è un grande vantaggio. Suraj non recita Pi, lui è Pi. Nel film la rappresentazione della natura è molto importante, c'è la tigre e gli altri animali, ma c'è anche l'isola, e ovviamente l'oceano.
Nel libro c'è già, in germe, gran parte di questa imagery. Certo renderla visibile per il cinema era una grossa sfida e non è stato un lavoro da nulla fare in modo che risultasse credibile. Ad esempio ho dovuto imparare un'infintà di cose sulle tigri, oltre che parlare con i migliori addestratori del mondo, per poter mostrare quello che è necessario fare per sopravvivere accanto a questi animali letali, e studiare a fondo la vita oceanica. La natura è fondamentale in questa storia, perché la natura esteriore si rispecchia nella natura interiore del protagonista.
Il film parla di fede, ma sembra mettere in gioco anche il ruolo del narratore di una storia.
Credo che si possa guardare alla storia di Pi come a quegli elementi della vita che non ci si riesce a spiegare, razionalzzare. Ci sono due posizioni possibili, chi li riduce, li analizza, fino a considerarli illusori, e questo può essere deprimente. C'è chi ha la speciale saggezza di accettarli per quello che sono, apprezzare il modo in cui ci legano ai nostri simili, danno senso alla nostra vita. Come cineasta non mi sento di dire se aderisco all'uno o all'altro pensiero, la verità è che probabilmente, in momenti diversi, li ho abbracciati tutti e due. Sarà il pubblico a scegliere, ma si può scegliere di avere speranza, e alla a fine è proprio questo il messaggio della storia.
Lei è un regista che affronta nuovi rischi con ogni nuovo film, esplorando sempre generi diversissimi. Nel caso di Vita di Pi qual è stata la sfida più grande?
Una credo sia abbastanza ovvia: la rappresentazione dell'oceano. Non avevo mai fatto un film con tanta acqua, e ovviamente non è che potessimo andare a girare in mezzo all'oceano! L'altra è stato gestire alcuni aspetti della storia che al cinema non potevano funzionare come sulla carta, anche perché questo è un film che si rivolge a un grande pubblico, non poteva in questo senso lavorare allo stesso modo del romanzo. Spero di esserci riuscito, ma non immaginavo che sarebbe stato così difficile. Quando ci si mette al lavoro su un film bisogna concentrarsi sugli aspetti positivi ed evitare di pensare a quelli negativi. Bisogna essere ottimisti, e, appunto, pronti a rischiare.
Stiamo ancora imparando tutto sull'uso del 3D, non solo io ma anche la maggior parte dei miei colleghi registi, perché ci rivolgiamo a un pubblico che al 3D non è ancora molto avvezzo. Sono dovuto entrare in una nuova relazione con il medium, rivedere il focus del mio lavoro, e all'inizio ero confuso. Parlavo con gli attori, giravo la performance, andavo in cabina di controllo per vedere la scena in tre dimensioni, e tornavo indietro ad attenuare il tutto perché il 3D amplificava i dettagli e mi trovavo alle prese con un caso di overacting. Credo che in realtà il 3D sia molto adatto a un cinema drammatico e ricco di impatto emotivo, è solo un mezzo nuovo di cui ancora non ci fidiamo completamente. Ma presto cominceremo a farlo, cineasti e pubblico.
Come mai la scelta di realizzare la tigre completamente in CGI? Per ragioni pratiche o per il piacere della sfida?
Credo che la vera sfida sarebbe stata lavorare con una tigre vera, anche se, certo, ci sarebbe costata meno. I tecnici hanno avuto bisogno di una quantità spaventosa di informazioni e dettagli sull'animale e il suo comportamento, ma girare il film con una tigre in carne ed ossa non sarebbe stato possibile. Sarebbe stato anche illegale mettere un ragazzo su un set con una tigre adulta! La tigra comunque è modellata interamente su un vero esemplare, e anche il resto, in gran parte sono veri set e vera acqua, non credo che la CGI da sola assicuri ancora un sufficiente livello di realismo.
Molte delle paure che avevo all'inizio si sono rivelate infondate, come il timore di lavorare con il giovane protagonista, cosa che invece è stata piacevolissima. Altre cose sono state più difficili, ma ho scoperto che servono le sfide, servono gli ostacoli per fare un buon film, altrimenti è facile scivolare in ciò che è prevedibile e banale. In più queste difficoltà apparentemente insormontabili mi hanno insegnato molto non solo sul cinema, ma anche sulla vita: mi hanno insegnato ad affrontare e superare anche i momenti più bui e difficili.