"Il più giapponese dei registi giapponesi". Yasujirō Ozu è stato per diversi anni considerato come il più grande regista vivente da critici, spettatori e diversi cineasti nipponici venuti dopo di lui e che lo hanno indicato come proprio punto di riferimento. Cineasti tra i quali figurano personalità come Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi e Masaki Kobayashi. Eppure, nonostante un riconoscimento e una considerazione di tale portata, per larga parte della sua vita le sue pellicole non sono riuscite a sbarcare in Occidente, un po' per l'imponente barriera culturale e commerciale tra Occidente e Oriente e un po' perché spinto poco in tal senso, visto come un autore estremamente attaccato alla tradizione giapponese e quindi di difficile lettura per il resto del mondo. Un parere condiviso non solo in patria, ma anche da illustri critici e divulgatori del cinema giapponese della nostra parte del mondo (vedi alla voce: Donald Richie).
La barriera di cui sopra cadde intorno alla metà degli anni '50, quando Ozu aveva già dato vita a diversi capolavori ed era purtroppo entrato negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1963, per un cancro alla gola), ma ciò non avvenne per meriti suoi. È consuetudine guardare a Akira Kurosawa per tale avvenimento e, per essere più precisi, alla folgorante presentazione di Rashomon al Festival di Venezia del 1951, dove vinse un Leone d'oro fondamentale per la storia del cinema. Pensate che in Europa arrivarono solo gli ultimi film del Maestro e anche tramite una distribuzione piuttosto esile che non riguardò comunque l'Italia. Il fatto è che nel giro di qualche anno "il più giapponese dei registi giapponesi" venne scoperto anche dagli occidentali, i quali confermarono in gran parte la considerazione dei nipponici e, ad oggi, Ozu è considerato unanimemente uno dei più grandi cineasti della storia del cinema. In Oriente e in Occidente.
La sua storia distributiva, se volete, è anche una testimonianza cristallina dell'universalità del linguaggio audiovisivo. Il suo modo di fare cinema è stato spesso accostato al neorealismo, anche se i suoi film sono totalmente distanti dalla morale cattolica, dalla presenza di Dio e dallo scontro. Il suo è un cinema essenziale, meditativo, accorto, totale, dalla preparazione delle scene, ai movimenti di camera fino alla direzione attoriale. Un regista che nel raccontare gli sconvolgimenti della storia moderna del suo Giappone, animata da una drammatica dialettica con la tradizione, si rifà alla velocità e al ritmo della vita, che invece è distante da quella tempestività simbolica, della quale è eco più solenne, ma senza dubbio parimenti rappresentativo.
Tucker Film, che già in passato si è occupata della riproposizione dei lavori di Yasujiro Ozu, per i 60 anni della sua morte, arrivata nel giorno del suo 60eimo compleanno, il 12 dicembre, propone una nuova "dedica a Ozu" (questo il nome della rassegna, della quale qui potete trovare le info), composta da 11 film del Maestro restaurati in 4K.
Crepuscolo di Tokyo (1957)
Uno dei film più drammatici di Yasujirō Ozu, che, come era solito nel suo cinema, utilizza il nucleo familiare per parlare del momento storico della società nipponica, spesso accomunata anche alle stagioni (che spesso ricorrono nei titoli della filmografia del Maestro giapponese). In questo caso un melodramma amarissimo che segna il compimento del disfacimento della famiglia tradizionale, inutilmente riparata all'interno di una casa appartenente ad un'epoca differente dalla città in cui è situata, che vive di ferro e ingranaggio.
La storia riguarda la famiglia Sugiyama, composta dal banchiere Shukichi, abbandonata dalla moglie anni prima, e le sue due figlie. Quella maggiore, Takako ha deciso di lasciare il marito, violento, ed è tornata alla casa dei suoi genitori insieme alla figlioletta, mentre quella più giovane, Akiko, deve fare i conti con una gravidanza indesiderata, a causa della quale è costretta a fare i conti con l'ex fidanzato, un poco di buono.
Una gallina nel vento (1948)
Una delle pellicole nelle quali Ozu riflette sulle conseguenze disastrose per il Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una nazione distrutta e che con la rinuncia al sogno dell'Impero e le macerie dove l'occupazione straniera prepara il terreno per il futuro è costretta fare i conti. Un popolo vittima del conflitto, ma anche vittima di se stesso, schiacciato (ancora una volta) tra le promesse del passato e l'oscurità del mondo che incombe trasfigurato nel corpo di Tokiko, che è costretta a prostituirsi per mangiare e per curare il figlioletto.
Una donna che diventa metafora di un Paese, costretta, per le attività sopracitate, a subire le angherie del marito Shoichi, tornato dal fronte, il quale si vergogna di lei, nonostante l'invito al perdono che persone intorno a lui invocano per la moglie. Ancora una storia piccola, ma universale, ancora una storia famigliare.
Il sapore del riso al tè verde (1952)
Uno dei film che potremmo definire "più di scontro" nella filmografia di Yasujirō Ozu, anche se di scontro ha veramente poco nel senso occidentale del termine, perché esso avviene attraverso la trasfigurazione cinematografica di un cineasta che ha cercato l'efficacia senza mai urlare, invadere o giudicare.
Allora ridefiniamo "scontro" dicendo che in questa pellicola c'è un gioco dialettico, in cui vengono messi nella stessa storia due matrimoni, entrambi combinati: uno avvenuto da anni, ed ormai in crisi, e l'altro invece proposto e prontamente rifiutato dalla giovane promessa sposa. Tradizione e modernità in una storia generazionale, in cui il Maestro cerca di raccontare un equilibrio e un modo per riuscire a farli dialogare, restituendo una dignità comune.
Taeko e Mokichi sono sposati e senza figli. I coniugi sono distanti, nello specifico la moglie rimprovera continuamente il marito per il suo essere pigro e noioso, mentre quest'ultimo si intrattiene in attività esterne al matrimonio, avendo rinunciato a recuperarlo. Un giorno la loro nipotina, Setsuko, viene spinta dalla famiglia a prendere marito a sua volta ed organizzano, per questo, un appuntamento combinato. La ragazza, esponente di valori occidentalizzati, boicotta l'evento e va a trovare lo zio. Gli avvenimenti successivi a questa fuga porteranno i tre personaggi a prendere delle decisioni fondamentali per il loro futuro.
Inizio d'estate (1951)
Conosciuto anche come Il tempo del raccolto del grano o Il tempo della mietitura. Si tratta di una delle pellicole di Ozu che testimoniano ciò che abbiamo scritto in apertura di articolo, ovvero come spesso il regista rievochi le stagioni dell'anno come metafora di quelle della vita dell'uomo e della società. Ognuna, ovviamente, legata ad un momento e un atto specifico. Un atto che in questo caso è la fine di un'era, fermato nel tempo con la fotografia, l'essenza stessa del linguaggio del cinema.
La pellicola è una meravigliosa dimostrazione della straordinaria accortezza cinematografica, unita ad una precisione e ad un accuratezza dolcissima, che il cineasta adotta per rappresentare i microcosmi famigliari ripresi in dei momenti di cambiamento invece spesso molto traumatici. Ancora un conflitto tra tradizione e modernità e ancora una trama che ruota intorno ad una presa di posizione femminile nella quale una giovane impone la sua volontà quando deve trovare marito.
Una famiglia unita e nestante, come quella Mamiya: i suoi genitori sono anziani e si godono la vecchiaia insieme ad un figlio medico e ad una nuora estremamente attenta con i loro nipotini. Tuttavia sono costretti a fare i conti con la decisione dell'altra figlia, Noriko, che decide di traferirsi in città insieme all'uomo che ha deciso di sposare. In questo caso è da segnalare anche come Ozu entra nella vita del gruppo amicale della giovane, rappresentante di un mondo determinato ad emanciparsi dal passato e a prendere le proprie scelte senza influenza esterna.
Inizio di primavera (1956)
Il film più lungo (stando al metraggio originale) tra quelli di Yasujirō Ozu ed anche un film dalla lettura piuttosto complessa, nonostante la trama sia piuttosto semplice: un marito che per scappare dall'alienazione congiunta della sua vita lavorativa e matrimoniale cede alla corte di una collega e commette adulterio.
Più che il solito confronto tra modernità e tradizione in questo film è presente una sorta di resistenza, ma senza uno scopo preciso, senza un futuro preciso. Tutto ciò che di solito c'è di vivo, emozionante e caldo nel cinema del Maestro qui scompare, imprigionato nel rigore del montaggio e nelle geometrie tipiche del suo cinema, che stavolta avvicinano fino a rendere uguali sia la vita urbana che quella domestica. Manca qualcosa ed è infatti un bambino, il figlio della coppia, scomparso per una malattia.
Così questo film diventa il film sull'assenza di una stagione, che, come abbiamo già detto, per Ozu ha un triplice significato, e sulla necessità di ricominciare a vivere per qualcosa.
Buon giorno (1959)
Per comprendere fino in fondo questa pellicola bisogna tornare indietro al 1932, anno di uscita di Sono nato, ma..., una delle prime fatiche di Ozu, di cui il film del 1959 è quasi considerato un remake e all'interno del quale si possono trovare infatti diversi citazioni, non solo per quanto riguarda la storia narrata, ma anche per quanto concerne diverse scelte di regia, ma soprattutto di montaggio e di sonoro. All'epoca non aveva potuto realizzare tante delle idee che aveva - specie in questi due ultimi campi - per la mancanza di avanzamenti tecnologici.
Uno dei film più noti di Ozu, dolce, antimodernista, discreto e umano, ma, soprattutto, leggero come pochi altri nella sua filmografia, anche se con un finale drammatico nella sua solita accettazione dignitosa e dimessa del tempo che passa.
Si parla dell'arrivo dello straniero (inteso come nuovo vicino portatore di novità), che introduce in una piccola comunità un fatto esterno eccezionale, in grado di catturare l'attenzione dei giovanissimi, ovvero la televisione. I piccoli fratelli Minoru sono tra i più sensibili all'apparecchio, che per avere decidono di ricorre ad un mutismo totale e ad un'opera di ribellione (anche volgare) nei confronti del pater familias, del quale Ozu ha sempre raccontato la crisi. Un cambiamento generazionale necessario, ma che rischia di avere nuovi idoli materiali, a sostituzione della spiritualità di quelli tradizionali.
Tardo autunno (1960)
Uno dei più importanti "film riflessione" di Yasujirō Ozu, concepito in un momento della sua vita molto delicato e in cui si possono infatti trovare dei ganci metaforici incredibilmente leggibili, come poche altre volte nella sua carriera.
Una pellicola in cui avviene un ribaltamento totale tra le generazione vecchia e quella nuova, con la prima che quasi si ritrova smarrita al punto da dover chiedere alla seconda consigli sul da farsi. Una scelta fondamentale in cui Ozu mette in discussione se stesso e tramite la quale invita lo spettatore a fare altrettanto, invitandolo ad una discussione con reiterati campi vuoti e con la scelta di un cast composto da volti ricorrenti nel suo cinema.
Al centro c'è ancora la trovata cinematografica dei matrimoni combinati, stavolta visti però come una chiave di volta fondamentale. Simbolo di redenzione, ma anche simbolo di emancipazione. Una svolta nata dalla rielaborazione del ricordo in modo da celebrarlo nel presente, andando oltre la nostalgia. Operazione sottolineata dalla nascita stessa della pellicola, tratta dalla sceneggiatura di Tarda primavera del 1949, film di cui parleremo dopo e film da cui è tratto anche il prossimo titolo della nostra lista.
Il gusto del sakè (1962)
Ultima pellicola di Ozu prima della sua morte, che lo raggiungerà appena un anno dopo, mentre stava, tra le altre cose, progettando un nuovo film.
Titolo che continua il ragionamento di Tardo autunno concentrandosi sulla necessità di un supporto e una comprensione reciproca tra generazioni differenti, soprattutto quando si parla di dialogo all'interno del proprio nucleo familiare. Alla base di questo discorso c'è la ridiscussione dei ruoli di potere e la necessità di mettersi in discussione, cosa che fa il cineasta stesso. Nel mettere insieme questo discorso il Maestro utilizza la trovata cinematografica del doppio, secondo la quale il protagonista, Hirayama, immedesimandosi nella situazione della figlia di un suo ex insegnante, decide di spingere sua figlia Michiko a rinunciare al suo status da nubile e trovare marito, decisione non presa dalla ragazza fino a quel momento proprio per occuparsi di lui.
Tramite questa storia Ozu rielabora per la seconda volta la sua scelta di rimanere celibe per occuparsi della madre, regalando alla nuova generazione (sempre tramite il femminile) un destino differente. Lo stesso che magari avrebbe voluto per una sua ipotetica figlia.
Fiori d'equinozio (1958)
Il primo leggendario film a colori girato da Yasujirō Ozu e una delle sue opere più conosciute all'estero, nonché l'inizio del cambiamento del suo punto di vista sullo scontro generazionale e sul cambiamento del suo Paese.
Si comincia con un matrimonio totalmente tradizionale, trionfo cinematografico dei costumi passati per un film che invece ha lo scopo di metterli totalmente in crisi nel modo più limpido possibile. La trama è infatti semplice e chiaramente metaforica: un padre, che gestisce la sua famiglia come fa con la sua azienda, è un punto di riferimento per parenti e conoscenti, che si rivolgono a lui per consigli vari. L'uomo si vanta di essere una persona aperta e disponibile, fino a quanto uno degli impiegati gli chiede di sposare una delle sue figlie.
Crisi del pater familias, necessità del cambiamento e la capacità della donna di guardare oltre, sia essa una giovane o magari moglie di uno di quegli uomini severi e rigidi del passato.
Tarda primavera (1949)
Come avrete capito arrivati a questo punto dell'articolo, parliamo ora di una pellicola centrale per il corpus cinematografico di Yasujirō Ozu, snodo fondamentale per tutto il proseguo della sua poetica.
Shukichi è un uomo rimasto vedovo che vive felicemente con la figlia Noriko, a sua volta contenta di dedicarsi al padre. Sarà la zia Masa a instillare il dubbio nella mente dell'uomo che non sia decoroso che la figlia rimanga una "zitella", eppure ella rifiuta a più riprese di sposarsi, fino a quando il padre, controvoglia, decidere di fingere di stare per risposarsi lui stesso con una donna più giovane.
Dall'alienazione della vita lavorativa e privata a cui è costretto il ceto più basso della società giapponese, il cineasta sposta il suo focus sul dramma borghese, in cui il disfacimento del nucleo familiare a causa del passaggio generazionale diventa più palpabile. Il dramma di un padre e una figlia (eco della vicenda privata di Ozu), che vogliono solo vivere insieme. Un film in cui viene raccontato un nuovo inizio per il regista, ma che merita la visione solo per la straordinarietà con cui viene raccontato il terremoto emotivo di Noriko, che restituisce tutta la leggendaria magnificenza pudica, dignitosa e solenne del cinema del regista giapponese, umano in questo film come non mai.
Viaggio a Tokyo (1953)
Il capolavoro per antonomasia di Yasujirō Ozu e una delle pellicole fondamentali della Storia del cinema. Film sunto della filmografia del regista (troviamo presenti sia una Noriko che il cognome Hirayama, non a caso) in cui con un storia semplice, rappresentata secondo il "tempo della vita", finemente miscelato a quello cinematografico, diviene un trattato universale di un cambiamento sociale e antropologico. La testimonianza di un crocevia esistenziale di un Paese intero.
In questo passaggio Ozu colloca una profonda riflessione sui codici esistenziali e di comportamento che hanno mosso la sua vita e quella del Giappone, proponendo una distorsione inconsapevole, causata dal cambiamento generazionale. Una trasformazione inevitabile che però rischia di far cadere nell'oblio una tradizione che deve essere accompagnata nel nuovo mondo per non portare al disfacimento della memoria collettiva.
Dal punto di vista stilistico il trionfo del realismo di Ozu, che adotta la semplicità estrema dell'approccio cinematografico (c'è solo un movimento di camera nel film) per dimostrare come la potenza del linguaggio audiovisivo esuli da qualsiasi tipo di sensazionalismo. Il trionfo del suo approccio contemplativo in una pellicola irraggiungibile.