Jacques Molitor, in Wolfkin, scoperchia la pentola (anzi, il pentolone) e fa un bel mischione. Un mischione di temi, di stili, di colpi di scena. Alcuni telefonati, altri sorprendenti. Alla fine, però, ciò che conta è il risultato, e Wolfkin, co-produzione tra Belgio e Lussemburgo, stupisce per la sua coerenza e la sua sincerità nel perseguire un'idea horror riconoscibile nella sua onesta originalità, senza la paura di nascondere i macroscopici difetti. Del resto, senza far spoiler (ma il titolo dice già parecchio) il tema della licantropia al cinema è stato ampiamente battuto, e allora Molitor, che per estetica si rifà al cinema nord europeo, lo inserisce in un climax sommesso, che per buona parte del film nasconde (come un lupo mannaro!) la sua natura, fino ad un'esplosione finale che lascia attoniti.
È un horror, ma se i generi contano ancora qualcosa, Wolfkin è anche un fantasy. E pure un romanzo di formazione. Appunto, i temi. Quelli che comprendono l'accettazione di sé, la propria natura, i propri istinti. Poi la famiglia, la crescita, il rapporto madre-figlio. In mezzo, pure la metamorfosi kafkiana. Nulla di celebrale, però: nella sua eleganza formale, al limite del glaciale, Wolfkin è un film accessibile, e solo fintamente impegnato. Anzi, è un'alternativa orrorifica, una digressione soffusa che, però, ha la capacità di tenere alta l'attenzione, perdonandogli le numerose ingenuità visive (dovesse davvero contare qualcosa, gli effetti visivi sono di bassa lega) e, di conseguenza, narrative.
Wolfkin, la trama del film
Per variare e svariare, Molitor, che ha scritto il film insieme a Régine Abadia, segna il punto fin dall'incipit: un appassionato amplesso, nel bel mezzo di un bosco, tra un uomo e una donna. Da quell'amplesso, scopriamo anni dopo, Elaine (Louise Manteau) ha avuto un figlio da Patrick (Benjamin Ramon), Martin (Victor Dieu). Il compagno? Sparito. Elaine, come tante altre mamme single, si occupa come può, lavorando in un fast food.
Tra i due c'è un buon rapporto ma ad un certo punto Martin inizia a dare segni di violenza, incontrollabili e istintivi, graffiando e mordendo i compagni di classe. Che fare? Restia, Elaine porta suo figlio nella grande magione dei nonni paterni, che scoprono di avere un nipote. Nemmeno loro sanno (forse) che fine abbia fatto Patrick, ma intanto accolgono calorosamente i due. Gli scatti d'ira di Martin, scopre Elain, sembrano una questione genetica. Tuttavia, il segreto è ancora più sconvolgente, rivelando la vera indole sanguigna.
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Un horror dall'istinto ragionato
Intelligente la visione registica di Jacques Molitor: sceglie di dosare e centellinare lo spettacolo - a buon mercato - dopo una prima parte che strizza l'occhio al thriller psicologico, nel quale viene introdotto il sentimento tra Martin e sua mamma Elaine, prediligendo le parole quanto gli sguardi. Un climax che, scena dopo scena, inizia ad incrinarsi, portando Wolfkin ad un altro livello, tenendo però il focus sulla situazione, e sui personaggi. Se l'aspetto horror del film esplode nell'ultima parte, concludendo il discorso sulla natura intrinseca e sugli istinti da seguire, il percorso che porta alla risoluzione, pur interrotto da diverse scelte didascaliche, è congruente alla totalità della sceneggiatura, che con semplicità mette sulla bilancia il compromesso forzato con le proprie necessità e le proprie peculiarità.
Facendo di necessità virtù, Jacques Molitor, come scritto all'inizio della recensione, mescola numerosi temi, agganciandoli essenzialmente alla maturazione di un lupo mannaro in una società borghese che vorrebbe addomesticare ogni singolarità. Da qui, la retorica da coming of age, comunque interessante nell'economia generale. Il pilastro portante, tuttavia, è il legame materno, e l'impresa di una madre nel comprendere gli aspetti più oscuri di un figlio. Comprensione, accettazione e irrinunciabile cura emotiva. Per questo, nella sua solidità da horror sui generis, e dietro diverse spigolature, Wolfkin è una deviazione che merita una chance.
Conclusioni
Wolfkin è un horror soffuso, studiato e ben girato. Un horror, come scritto nella nostra recensione, che non fa affidamento al jumpscare, ma affida alla scrittura le svolte inquietanti, che esplodono nel riuscito finale. E poi, i licantropi al cinema funzionano sempre...
Perché ci piace
- L'atmosfera.
- La storia.
- Il finale.
Cosa non va
- Chi cerca un horror canonico, potrebbe restare deluso.