We All Play: se un documentario racconta l'inclusione della comunità LGBTQIA+ nello sport

"Qualcosa si sta muovendo, ma in Europa c'è ancora molta strada da fare", la nostra intervista esclusiva a Pablo De La Chica, regista del documentario We All Play, rilasciato da Rakuten TV in occasione delle Olimpiadi di Parigi 2024.

Gli atleti e le atlete di We All Play

La sfida al pregiudizio, alla ghettizzazione, allo stereotipo e alla discriminazione. Un'ode alla parità e alla libertà, lungo il tratto di una disciplina sportiva che diventa etica morale e sociale. We All Play, distribuito da Rakuten TV, e diretto da Pablo De La Chica, racconta di quanto gli atleti appartenenti alla comunità LGBTQIA+ siano ancora considerati un tabù, tanto dall'opinione pubblica quanto dalle federazioni di settore. L'uscita del documentario, che coincide non a caso con le Olimpiadi di Parigi 2024, è quindi l'occasione per approfondire un tema trasversale che comprende il tennis, il rugby, l'NBA e poi la NFL, fino al calcio. La percentuale di chi rivela il proprio orientamento sessuale è molto bassa (e molti lo rivelano solo dopo essersi ritirati). Ad influire negativamente, la paura di perdere gli sponsor, di subire bullismo, di inficiare sul rapporto di squadra o con i tifosi.

We All Play Una Foto Del Film
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Un problema radicato, che We All Play ricuce portando in risalto le storie di Javier Raya, Lola Gallardo, Valentina Petrillo e altri atleti queer che, invece, si fanno portavoce di una sfida tanto sportiva quanto umana. "In questo progetto, la grande sfida è stata quella di dare voce a ogni singola persona del collettivo", ha spiegato Palo De La Chica, nella nostra intervista esclusiva. "Storie profonde, con persone diverse all'interno dello stesso contesto. La cosa più impegnativa è cercare di creare una voce globale per voci diverse, per sport diversi ed esperienze diverse. Ma la cosa più importante è stata cercare di mandare al pubblico un messaggio forte e potente".

Sport e cinema, binomio sempre perfetto

We All Play Un Immagine Del Documentario
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Con il regista, tre volte premio Goya, siamo partiti dal binomio sempre perfetto, sport e cinema. Perché questa relazione funziona così bene? "Uno sport ha sempre un momento iconico di gloria. A volte, quando si fa un documentario sul calcio, sul basket, si vede sempre la luce, il lato positivo della storia. Ma il buon documentario dipende sempre da diversi aspetti. È un documentario sportivo, ed è necessario vedere entrambi i lati della luna, il lato oscuro e quello chiaro. Non si parla di scienza o di qualcosa di molto lontano. Lo sporti riesce a far entrare in contatto le persone, perché è più vicino a noi". E prosegue: "Adoro The Last Chance su Netflix, che fa la radiografia ai lati oscuri del basket. Inutile fermarsi sull'aspetto divino, il pubblico deve essere sullo stesso piano dell'atleta".

We All Play Gallardo Scena Documentario Rakuten
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Ma com'è stato lavorare con gli atleti e le atlete di We All Play? "Davvero facile. Ogni singolo personaggio del film mi ha reso il lavoro agevole. Tutte le interviste sono state stupende. Il lavoro con Lola, con Valentina, con la protagonista, Alejandra. È stata una grande esperienza lavorare con questi sportivi famosi. Ma per me la cosa più importante è il lato umano, e ogni singolo personaggio del film è incredibilmente umano".

Tra le Olimpiadi e l'Europa dei diritti

Come detto, We All Play è arrivato in streaming su Rakuten in concomitanza delle Olimpiadi. Una scelta distributiva congrua e puntale. "A volte i film arrivino nel momento giusto", continua il regista spagnolo. "E a volte non si ha mai il momento giusto per fare qualcosa di artistico. Penso che la situazione in Europa in questo momento sia strana. Perché in questo momento politico l'ultradestra che cresce, e i diritti umani cominciano ad essere messi in discussione. Questo è il momento di dare voce alla collettività. Ci sono stati gli Europei, ci sono i Giochi Olimpici. Credo che questo sia il momento migliore per dare voce a questo aspetto umano e sportivo".

Ma qual è il motivo per cui molti atleti della comunità LGBTQIA+ sono ancora restii a parlare? "Penso che il problema più importante in questo momento sia la paura dei social media, perché se dici che sei gay, lesbica, transgender o altro, i social scatenano odio. È una montagna di odio, una montagna di paura. A volte, capisco perché le persone non lo vogliono dire: "Questa è la mia vita privata. Questo è il mio orientamento. Questa è la persona che amo. Perché mettere in secondo piano la mia vita privata rispetto alla mia carriera, perché non si tratta solo della mia carriera, ma anche della vita di mia moglie, di mio marito, della mia squadra e della mia famiglia". È discorso un complesso. Credo che una delle cose più importanti in questo momento di social media, di fake news e di tutto il resto, sia cercare di trovare un posto sicuro per la collettività, per crescere e sentirsi a proprio agio nell'amare ciò che si vuole. Le cose sono cambiate, ma in molti paesi europei ancora non viene accetta la comunità LGBT. I diritti devono essere esercitati ogni giorno".