Un documentario sul sisma senza parlare del sisma, un anno di riprese insieme a Michela, Stefano e i loro due bambini, una famiglia di allevatori che nel terremoto del 2016 nelle Marche ha perso tutto: casa e stalle. Vulnerabile bellezza è una storia di resilienza e caparbietà, è il racconto di chi a quelle montagne battute dalla neve in inverno e dal sole in estate, vuole tornare per riprendersi una quotidianità che le è stata strappata e per rifondare tutto: la propria abitazione, i propri animali, la fattoria, proprio lì davanti al Monte Bove.
Il regista Manuele Mandolesi, reduce dalla vittoria del Globo d'Oro, ha realizzato il film quasi senza una produzione: "L'ho creata io mettendo dei soldi di tasca mia per tutta la fase di ricerca e le prime riprese e andando in giro per le aziende a fare dei pitch con un teaser di tre minuti e uno script di due pagine". Solo dopo, racconta, sono arrivati Faber, Nerea, XL Extralight ed Electri insieme alla donazione di un privato e a una piccola campagna di crowdfunding "destinata più che altro a sostenere il territorio attraverso i prodotti acquistati: il ciauscolo di Visso, il guanciale di Arquata e il formaggio di Ussita. Abbiamo noleggiato un camper e siamo stati in giro sul territorio con i loghi delle aziende per dar loro visibilità e mettere insieme i soldi necessari a terminare le riprese". Un modello produttivo che parte dal territorio: "Una delle cose più importanti è stata quella di stare vicino alle persone del posto, ascoltarle e chiacchierarci". L'idea parte da un progetto più ampio, La vulnerabilità della bellezza, basato su tre storie da raccontare con tre linguaggi differenti a seconda del canale di diffusione: il primo è Vulnerabile bellezza, il più cinematografico, il secondo, Questa è casa nostra, è un racconto di cinquantasei minuti un po' più televisivo, l'ultimo è una webserie, Chiedi alla polvere, girato solo in parte per mancanza di tempo.
Il Globo d'Oro per Manuele, è un'emozione grande "soprattutto nella misura in cui continua a far parlare di quel sisma; avevo fatto una promessa a me stesso e alle popolazioni colpite dal terremoto. Avevo deciso di far uscire il film più tardi rispetto all'attualità, perché sapevo che l'attenzione dei media sarebbe scemata quasi completamente, come è successo poi per L'Aquila". Ci teneva che uscisse a distanza "dal circo mediatico di quei mesi di cui io stesso avevo fatto parte con diversi reportage per il Corriere della Sera. La vittoria prima del Festival dei Popoli poi quella del Globo d'oro servono a far parlare della situazione di difficoltà che tutt'oggi continuano a vivere le famiglie colpite dal terremoto: la maggior parte della popolazione vive ancora nelle soluzioni abitative di emergenza, la ricostruzione è a zero, molte famiglie sono sfollate negli hotel e non sono ancora tornate nelle proprie abitazioni, o addirittura non ci torneranno più". Con Vulnerabile bellezza, Mandolesi prova invece a racconta tutta un'altra storia: di speranza e rinascita.
Il sisma, la semplicità dei luoghi e la forza di una famiglia
Eri nelle Marche la notte del 24 agosto 2016?
No, con la mia compagna avevamo deciso di andare in un B&B nelle Marche dove andiamo ogni tanto sotto i Monti Sibillini, ma all'ultimo minuto mi hanno chiamato per un lavoro. Ero lì invece la notte del 30 ottobre, quando ci fu la scossa più forte. Lì ho sentito subito l'esigenza di raccontare quello che era successo alla mia terra; non avevo mai fatto nulla sulle Marche, eppure il mio lavoro da reporter mi aveva portato ad affrontare diverse realtà italiane: a Lampedusa per raccontare gli sbarchi, a bordo di una nave militare durante l'operazione Mare Nostrum o a Taranto per l'Ilva.
A cosa si riferisce la "vulnerabile bellezza" del titolo?
Ha una doppia valenza. Da un lato fa riferimento alla natura bellissima e nello stesso tempo vulnerabile, non solo in quanto ferita dal sisma, ma anche perché esposta al pericolo dell'abbandono: se la gente non ha la possibilità di vivere in quei territori, nessuno si prenderà cura di quella montagna, di quei sentieri e di quelle strade, e allora la bellezza rischia di scomparire. Dall'altro lato l'espressione si riferisce alla bellezza della persone che ci vivono, sono testarde, forti, non si perdono d'animo e hanno deciso nonostante tutto di resistere e continuare ad abitare lì.
Come hai trovato la storia della famiglia protagonista?
Ho iniziato a fare ricerca a febbraio 2017, ho cominciato semplicemente telefonando agli amici della zona di quando ero adolescente. Ho iniziato a parlarci, a farci delle cene insieme davanti a una bottiglia di vino, mi serviva capire che storia raccontare. Conoscevo il fratello del protagonista Stefano, così un giorno sono andato su in montagna nella roulotte dove vivevano, abbiamo chiacchierato un po' e una sera sono rimasto a cena con loro; in quel momento a Ussita c'erano una decina di persone che abitavano nei camper e mangiavano insieme in una casetta di legno. Stefano e Michela li ho conosciuti così e fin da subito mi sono reso conto che avevano una storia molto particolare, capace di offrire un punto di vista completamente diverso dai racconti sul terremoto a cui ci eravamo abituati. Hanno vissuto questa crisi come un'opportunità, nonostante con il sisma avessero perso casa e stalle hanno deciso di rimanere in quei luoghi e di continuare a investirci, acquistando ad esempio altre pecore rispetto alle quindici che avevano appena iniziato ad allevare quando il terremoto li ha sorpresi.
Insieme sono stati in grado di superare quel momento mantenendo le radici forti con la terra, con gli animali e con i legami familiari.
Sei riuscito subito a convincerli?
Ho iniziato a passare del tempo con loro, a volte senza neanche tirare fuori la telecamera. Poi ho cominciato a seguirli con la macchina da presa nel loro peregrinare tra gli animali, i sentieri, le stalle e si sono abituati alla mia presenza. Ci ha aiutato anche il fatto che da giovani ci conoscevamo, gli ho spiegato subito qual era il mio progetto e ci siamo trovati in sintonia: niente telecamera sparata in faccia, niente primi piani e pianto a comando per la casa distrutta. Forse all'inizio non hanno capito bene l'entità del progetto, l'hanno preso un po' come un gioco. E alla fine ero quasi parte della famiglia. Abbiamo passato insieme anche Capodanno. Cercavo di essere presente almeno una settimana ogni mese e mezzo, sentivo cosa facevano, capivo qual era la scena che dovevo girare e li avvertivo.
E invece con i bambini come è andata?
Sono una forza della natura, giocano nel fieno, con le pecore, sono liberi e piuttosto selvaggi, crescono molto diversamente da come i bambini fanno solitamente nelle nostre città. Mi hanno visto come un amico di famiglia, vivevano la loro vita ordinaria e non facevano più caso alla telecamera. Ad agosto tornerò a trovarli con mia figlia di un anno.
Michela è una figura femminile di straordinaria potenza. Com'è venuta fuori?
Lei è magnetica, con uno sguardo riesce a dirti tante cose, è estremamente penetrante e comunicativo. All'inizio ha attirato la mia attenzione più di qualsiasi altra cosa, dopo ho scoperto anche Stefano, un uomo diretto, di poche parole, che parla a mezzi versi. Rappresenta la semplicità e la forza di quei luoghi, racconta a suo modo un altro aspetto di quei territori; lui è il fare, lei è quella non si è mai battuta e ha sempre spronato per andare avanti.
Vicino, ma lontano
Qual è stato il processo che ha portato alla stesura finale del documentario?
In genere quando sono molto avanti nel rapporto interpersonale con i protagonisti, faccio molte interviste; non sempre le inserisco nel film, ma le uso per scrivere, mi servono da canovaccio per capire come trasformare alcune emozioni in scene, e come girarle. È successo anche con Vulnerabile bellezza, spesso mi capitava di scrivere mentre giravamo, magari rivedevo delle scene e capivo che andavano ristrutturate o raccontate meglio. Molti take invece sono one shot, come per esempio la scena di quando Michela e Stefano mettono a letto i bambini; per tenerla ho dovuto lottare con il montatore!
Hai scelto di affidare la scansione temporale al susseguirsi delle stagioni. Perché?
Perché lì le stagioni ci sono, la montagna e la vita dei suoi abitanti cambiano con le stagioni, un ciclo che scandisce il loro continuare a lottare caparbiamente per poter rimanere lì. Ci vuole una forza d'animo eccezionale per fare quello che Michela e Stefano hanno fatto, dimostrando una straordinaria capacità di resilienza, che appartiene alla semplicità della vita. Credo che Vulnerabile bellezza sia in fondo un film su una famiglia, ma anche sulla speranza.
A guidare lo spettatore è la voce fuori campo di Michela, che racconta la storia del soldatino di piombo. Come sei arrivato a questo doppio binario?
È una suggestione arrivata mentre stavo con loro. Dopo cena c'era il momento della favola, era diventata una loro quotidianità, l'ho vista una volta e poi l'ho girata. Con quella narrazione Michela racconta ai figli che si può andare avanti oltre le difficoltà: il soldatino di piombo attraversa mille disavventure, cade dalla finestra, finisce in un rigagnolo d'acqua in mezzo ai topi, va sulla barchetta, affonda, viene mangiato dal pesce ma alla fine ritorna dalla sua principessa. Questa immagine rappresenta Michela e Stefano con la loro terra e i loro figli, proprio come il soldatino di piombo anche loro dopo innumerevoli vicissitudini sono riusciti a ritornare e rifarsi una casa. L'idea di sfruttare la favola e spalmarla durante tutto l'arco narrativo del film viene dal montatore, è una metafora abbastanza semplice: come il soldatino di piombo è contento alla fine di stare abbracciato alla sua ballerina, allo stesso modo anche loro tornano nella loro montagna, in una casa nuova con i propri figli.
I tuoi modelli di riferimento?
Ci sono inevitabilmente le suggestioni di tutto ciò di cui mi sono nutrito da De Seta a Minervini, Rosi o Wiseman. È il risultato di un percorso formativo in cui la ricerca del linguaggio e il tentativo di dargli un senso si sono rivelati fondamentali, ogni storia ha il proprio linguaggio.
Il tuo sguardo è molto discreto, rimane nascosto, lontano e lascia la scena ai protagonisti della storia. Come ci sei riuscito?
Era un'idea molto presente sin dall'inizio: volevo entrare in intimità con loro, raccontare la loro vita reale ma distanziarmi da tanti tipi di linguaggio che invece ti stanno addosso, cosa che ho fatto anche io in molti documentari per la tv. Qui per la delicatezza del tema, dei rapporti umani e per l'intimità che volevo arrivasse allo spettatore, dovevo stare lontano ma vicino, avevo bisogno di far vivere lo spettatore in quella montagna e in quel momento insieme a loro, però senza essere invadente.
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Una storia universale
Cosa deve avere una storia perché ti appassioni e diventi oggetto del tuo racconto?
Forse l'archetipo del particolare che racconta l'universale. In fondo anche la storia di Vulnerabile bellezza non è altro che il racconto del rapporto tra due genitori, due bambini e la loro terra, è la lotta dell'eroe che cerca di tornare alla propria terra, è quasi un'epica. L'altro aspetto fondamentale sono i personaggi stessi, che chiedono di essere raccontati.
Cosa c'è nel tuo futuro prossimo?
Sto lavorando a una serie di documentari per Focus e sono sul set del film di Ciro De Caro come direttore della fotografia. Sto inoltre cercando di scrivere un soggetto per una serie tv sugli anni '90 e due nuovi documentari, il primo su un personaggio sportivo e il secondo sull'intuizione che avrebbe dato origine al mondo delle minimoto da cui poi sono nati tutti i più grandi piloti di moto da Melandri, a Rossi, Simoncelli, Capirossi.