Le vite degli altri possono essere molto rassicuranti. Soprattutto quando sono peggiori delle nostre. Apriamo questa recensione di Vivere ammettendo che c'è un grande piacere voyeristico nello sbirciare dentro disastri familiari altrui, nel mettersi a origliare dietro la porta a sentire urla, pianti e piatti che si infrangono. Accade spesso in sala, quando diventiamo spioni, pronti a puntare il dito contro i personaggi mentre li giudichiamo.
Nel nuovo film di Francesca Archibugi, che al voyerismo ci ha pensato eccome, è molto facile che tutto questo accada. Perché quello proposto dalla regista romana è uno spaccato familiare sfilacciato e imperfetto, dove le madri sono distratte, i padri codardi e i figli vittime, costretti a diventare presto grandi per dare ai genitori lezioni di maturità. Archibugi cerca di insinuarsi nelle falle della tipica famiglia borghese italiana, va alla ricerca di ipocrisie e debolezze, ma finisce per inciampare in una serie di stereotipi e di frasi fatte che svuotano Vivere di credibilità.
Tutto appare artefatto, costruito, infarcito di cliché. Elementi che in un presunto "spaccato di realtà" minano la riuscita del film sin dalle prime battute. A rendere Vivere problematico, poi, c'è il doppio punto di vista esterno scelto per guardare verso la famiglia protagonista: una ragazza irlandese e un vicino inquietante. Due punti di vista potenzialmente interessanti che si rivelano soltanto due espedienti banali e alquanto consolatori per curiosare dalla serratura nelle miserabili vite altrui.
La trama: i fatti non sono la verità
Villette a schiera in un quartiere borghese di Roma. Tutto ordinato e tranquillo da fuori. Poi apri la porta di casa Attorre e vieni travolto dal caos. Susi è una mamma sbadata, sempre trafelata, tutta fretta e furia, con una figlia che soffre di asma e un lavoro frustrante. Susi sognava di fare la ballerina ed è finita ad allenare donne in sovrappeso. Suo marito Luca è un giornalista freelance, abile inventore di notizie gonfiate ad hoc per guadagnare qualche soldo in più. Ma le fake news non sono certo le sue uniche bugie. In questo contesto familiare al limite del collasso, ecco arrivare Mary Ann, ragazza alla pari venuta dall'Irlanda per conoscere meglio l'arte italiana. La sua presenza, ovviamente, non farà che peggiorare le cose. Classico nelle premesse e ancora più prevedibile nello sviluppo, Vivere è un film a cui manca la sincerità. Nella scrittura di Archibugi, affiancata da Francesco Piccolo e Paolo Virzì alla sceneggiatura, non c'è mai autenticità.
I personaggi: la fiera dello stereotipo
I personaggi parlano per frasi fatte, mossi come marionette al servizio di una storia senza guizzi e piena di dialoghi talmente finti da cadere spesso nel ridicolo. Eccessivamente didascalico nel sottolineare il presunto strazio dei protagonisti, Vivere cerca di mettere in scena la delusione di una giovane ragazza che immaginava un'Italia affascinante, bella e sofisticata e poi si dimostra ipocrita, debole e decadente. Archibugi abbozza anche un intrigante discorso filosofico sulla differenza sostanziale tra fatti e verità nell'agire delle persone (a ben pensarci sono due cose diverse spesso scambiate per sinonimi), che si rivela presto troppo ardito, straniante e fuori luogo per il tono del film.
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A peggiorare la situazione c'è anche la caratterizzazione stucchevole data ai personaggi di Adriano Giannini e Micaela Ramazzotti. Lui è il classico uomo vile, viscido, egoista ed eterno Peter Pan visto troppe volte nel nostro cinema; lei, invece, sembra ormai rimasta incastrata nello stesso modello femminile di donna svampita, stralunata a con la testa tra le nuvole. I due si sforzano di restituire allo spettatore la loro condizione di precarietà totale (emotiva, amorosa e lavorativa), ma questo non basta a farci credere davvero al loro dramma.
L'unica a uscirne a testa alta è Roisin O'Donovan, che con il suo candore fornisce l'unica interpretazione davvero autentica. Un vero peccato, poi, non aver sfruttato a dovere il personaggio potenzialmente più affascinante del film, ovvero l'ambiguo vicino di casa interpretato da un sacrificato (e stereotipato) Marcello Fonte. L'idea di inserire un personaggio passivo, che guarda tutto e tutti senza far niente, che subisce la vita invece di diventarne attore si rivela soltanto una promessa mai mantenuta. Dispiace sempre bocciare lo sforzo artistico di un gruppo di persone che ha riversato sudore e lavoro in un'opera, ma questa volta è davvero difficile non trovare fastidioso un film che sin dal titolo (vago e altisonante) non sa davvero che strada prendere. Forse l'unico atto sincero di una pellicola che non ha niente da aggiungere a quello che già conosciamo sul marcio nascosto dietro le famiglie "normali".
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Conclusioni
Inutile nasconderlo: questa recensione di Vivere è stata molto severa con il nuovo film di Francesca Archibugi. La colpa è di un'opera che cerca di raccontare il nostro Paese attraverso una famiglia disfunzionale, dove le madri sono in affanno, i padri distratti e i figli costretti a crescere in fretta, ma si rivela soltanto una sequela di stereotipi già visti troppe volte. Non aiutano le caratterizzazioni trite e ritrite dei protagonisti e una scrittura priva di sincerità.
Perché ci piace
- La scoperta di un volto nuovo come quello di Roisin O'Donovan, spontanea e candida lungo tutto il film.
- Il discorso quasi filosofico sulla sostanziale differenza tra "fatti" e "verità"...
Cosa non va
- ...che però stona all'interno di una sceneggiatura artefatta, piena di dialoghi per niente autentici e veri.
- Le prove di Adriano Giannini e Micaela Ramazzotti, rimasti incastrati dentro due modelli troppo stereotipati.
- Un grande attore come Marcello Fonte, qui totalmente sprecato.