Vite centripete
Roger Michell sorprende. Mai dal regista del patinatissimo Notting Hill ci si sarebbe aspettati un film come The mother, che più che rifarsi al cinema hollywoodiano sembra ispirarsi ai registi inglesi d'impegno, Mike Leigh in testa. Merito della regia di Mitchell, che alterna la telecamera a spalla e la luce naturale, in modo da catturare tutta la lividità del cielo di Londra a riprese formalmente più costruite e artistiche.
Ma il regista più che concentrarsi sui paesaggi e sullo scenario, mette in primo piano i personaggi, così reali eppure così allucinati.
E qui il merito va anche alla sceneggiatura di Hanif Kureishi, già autore del libro da cui è tratta, e già responsabile del film scandalo Intimacy, di Patrice Chéreau.
Questa volta Kureishi affronta un tema tabù fra i più scottanti; il sesso fra gli anziani, o meglio ancora il sesso per i nostri genitori anziani.
Il film ci racconta la storia di May (Anne Reid), sessantottenne che perde improvvisamente il marito. Sballottata tra un figlio (Peter Vaughan) che non sa cosa farsene di lei e una figlia (Anna Wilson-Jones) che la ritiene la causa di tutti gli errori della sua vita, May si ribella improvvisamente alla vecchiaia e si butta in una relazione disgregatrice per tutto il suo mondo e per tutti quelli che le stanno intorno.
Il regista non ha nessun pudore nel mostrarci May mentre si avvia verso la distruzione sentimentale dei suoi cari e non si ritrae nell'affrontare un tabù fortissimo nella nostra società.
May diviene il simbolo di tutti quegli anziani che i figli ormai ritengono solo cadaveri in putrefazione, ad un solo passo dalla fossa e quindi incapaci e forse indegni di qualsiasi sentimento che non sia piegato ai bisogni di chi sta loro intorno.
Tutto questo dà come risultato un film forte, spiazzante. Ogni pietà è annullata, i personaggi ispirano poca simpatia, persi ognuno nelle sue miserie.
Ed è forse questo il vero nodo del film; non tanto il sesso, quanto la disgregazione delle famiglie.
Il regista ci porta proprio nel centro del maelström delle miserie familiari; in un ritratto grigio e realistico, Mitchell ci dà un'idea per niente idilliaca di come possano essere i rapporti fra le persone, o meglio i loro non-rapporti.
I personaggi, tutti egregiamente tratteggiati (grazie anche all'ottima recitazione di tutti gli attori), sono interamente assorbiti dalle proprie esigenze, aspirazioni, desideri. Non c'è spazio per gli altri, non c'è spazio per l'amore, solo per il possesso e l'invidia.
Ma in questo crogiolo di frustrazioni e gelosie, comunque rimane un barlume di speranza. May dopo aver distrutto tutto, capisce che non si può riadagiare in quello che gli altri si aspettano da lei, ma che deve ricostruire la sua vita dal principio, in un inno alla ribellione e alla lotta contro lo stereotipo.