Il concetto di verità, oggi, ha perso le sue forme e i suoi contorni. Ormai, che siano i reel di Instagram o i proclami (pseudo)politici, la verità è solo questione di prospettiva. Tutto cambia in base ai punti di vista. Tutto si evolve, mutando pure la memoria e la percezione. Pura distopia, qualcuno dice. Girandoci attorno, ma ammiccando un po' troppo al giallo borghese, Rebecca Zlotowksi - sempre più centrale nel cinema medio europeo - dirige e scrive (insieme ad Anne Berest) Vita privata che, della verità, ne fa un ovvio file rouge.
Un whodunit alla francese, senza però esserlo davvero; piuttosto l'accordo tra commedia, mistero e introspezione, affondando nella profondità e nell'introspezione, per evitare di percorrere (intelligentemente?) il cammino del più classico e convenzionale thriller. Nonostante le premesse.
Vita privata: metti Jodie Foster a Parigi
A proposito di premesse: in Vita privata, Jodie Foster (!) veste i panni di Lilian Steiner, una psicoanalista americana trasferitasi a Parigi ormai da anni. È separata dal marito Gabriel (Daniel Auteuil) e ha un figlio adulto (e inconcludente), Julien (Vincent Lacoste), con cui fatica a relazionarsi. Nonostante Parigi sia diventata casa sua, sembra intorpidita verso i propri pazienti. La morte - apparentemente un suicidio, ma chissà - di una sua paziente la getta nello sconforto, spingendola a dubitare della versione ufficiale e a indagare personalmente. Quello che inizia come un dovere professionale (e morale?) si evolve presto in un tormentato viaggio dove sospetti, ricordi, ipnosi e visioni surreali finiscono per miscelarsi.
Una struttura da salottino
Su carta, il film della Zlotowksi funziona. Teoricamente, l'assunto da giallo è però un pretesto per rileggere macro-temi come il dolore, l'identità e, appunto, la verità. Niente di nuovo, ma declinato secondo le regole di uno spettacolo che tenta di sbottonarsi. Perché dietro la domanda cardine - chi ha ucciso Lilian? - si nasconde un discorso molto più ampio, nel quale gli indizi - se così possono essere chiamati - sembrano risolvere innanzitutto le crisi vissute da Lilian, terapeuta che ha smesso di ascoltare i propri pazienti. Se il tono è di quelli leggeri (forse un po' troppo leggeri, considerando lo spessore umano messo in campo), non c'è dubbio che la tensione, alla lunga, tenda a scivolare via (ma il timbro c'è, anche grazie alla snella durata), bloccandosi in una struttura da salotto (anzi, salottino).
Un film medio
Per questo si parlava di teoria: la regista apparecchia la messa in scena senza sbaffi o strattoni, dimenticando però il trasporto emotivo e, di conseguenza, lasciando tutto a metà. Ecco, Vita privata è, a tutti gli effetti, un racconto spaccato in due: se il peso è sorretto interamente da Jodie Foster (e da Daniel Auteuil, in grado di ridare brio alla storia ogni qual volta che entra in gioco), la sceneggiatura - che mischia diversi umori, senza mai incidere davvero - si sfilaccia in una dimensione di mezzo che, per volere dell'autrice, prova ad acchiappare il pubblico. Se l'effetto non manca, il calore narrativo fatica ad accendersi. Ci prova Jodie Foster, e ci prova una furbesca Pyscho Killer piazzata in apertura, a scaldare la situazione. Ma lo schema narrativo va avanti a vampate, e alla fine dei giochi resta troppo poco. Come dire, un buon film e nulla più.
Conclusioni
Rebecca Zlotowski rivede i confini del whodunit secondo una logica francese. Se Jodie Foster e Daniel Auteuil meritano la giusta attenzione (salvando l'opera), il film sembra puntare ad una canonicità sterile puntellando gli elementi nella giusta posizione. Tuttavia, resta anonimo, e poco saporito. Una visione (nella) media, che lascia ben poco.
Perché ci piace
- Jodie Foster e Daniel Auteuil.
- Uno spunto interessante.
- Tutto troppo al punto giusto...
Cosa non va
- ... rendendo il film decisamente anonimo.
- Alla fine, resta davvero poco.