Recensione L'uomo invisibile (1933)

Il sogno di poter diventare invisibili è un po' il sogno di tutti. Nel capolavoro di James Whale si trasforma in un vero e proprio incubo. Ad occhi ben spalancati.

Vedere o non vedere...

Il cinema, si sa, è un artificio. E' un grande laboratorio grazie al quale le "maschere" diventano presenze quasi reali, quasi tangibili, pur conservando tutta la loro illusorietà: la loro vita inizia e finisce con il film. L'uomo invisibile di James Whale è un classico che da questa secolare fabbrica dei sogni ne esce fuori dopo averne danneggiato irreparabilmente i complessi ingranaggi.

Il film del regista inglese è un inno alla percezione del nulla, è la negazione del paradigma principale del cinema: la visibilità. L'uomo invisibile è l'espressione massima del tentativo (riuscito) di uno scienziato di annullare la visione di se stesso per poi ricorrere a varie "maschere" (le bende, l'impermeabile, un cappello, un vistoso paio di occhiali da sole) per riaffermare, tragicamente, la sua presenza e la sua identità. Tutto ciò non accade per nascondere alla vista altrui le proprie orrende fattezze come in The Elephant Man, bensì per rivelare la "quotidianità" di un uomo, di un visionario che ha valicato i limiti del "possibile". Quegli occhiali da sole con cui lo scienziato difende gli spazi "vuoti" del suo corpo circuendo i bagliori della realtà visibile, inverte però, in un originale processo di invisione, lo sguardo sul mondo che il protagonista del film di David Lynch poteva, invece, mettere in atto grazie ad un piccolo spiraglio apertosi sul cappuccio. La maschera, sin dai tempi dell'antica Grecia, è sinonimo di un'addizione mendace, di uno svelamento di qualcosa che esiste solo nella finzione o che esiste solo nell'interiorità più profonda. Nella pellicola di Whale quelle bende servono, invece, a rendere tangibile la presenza di Griffin, di far vedere quello che lo scienziato è riuscito dopo tanti esperimenti a far sparire: il suo corpo. Siamo sicuramente solo agli albori di una lunga riflessione sulla "carnalità" dell'individuo (e della visione), avviata dalla body art e manifestatasi perentoriamente anche nel cinema soprattutto con David Cronenberg. Ma James Whale ha colto indirettamente, e prima di tanti altri cineasti (ma già nel 1904 c'era stato un "antenato" del cinema come Georges Méliès a confrontarsi con il tema dell'invisibilità con Siva l'invisibile>), il senso più profondo dell'inganno che si cela dietro le apparenze e dietro l'eccessivo culto dell'immagine, qui, come non mai, collocata in un possibile fuori campo assoluto della storia del cinema.

Il protagonista de L'uomo invisibile non compare mai nelle sue fattezze concrete se non in punto di morte, grazie ad una serie di fotogrammi che fa comparire progressivamente sullo schermo il volto "completo" di Griffin: il ritorno alla normalità nel rapporto occhio-corpo coincide anche con il momento dell'ultimo addio. L'ultimo addio al mondo e, forse, anche ad un certo cinema spettacolare, senza che sia necessariamente anche spettacolarizzato. Infatti gli effetti speciali de L'uomo invisibile sono tutti congeniali all'assunto principale del film, dove l'inimitabile mano di James Whale fa avvertire il senso più profondo del suo modo di girare: le inequivocabili tre inquadrature sempre più ravvicinate con cui il protagonista principale fa il suo ingresso nel film (stesso trattamento riservato già al mostro di Frankenstein); l'omosessualità ostentata nella scena in cui lo scienziato balla nudo indossando solo una camicia; il gusto per le ghost stories (dai racconti sui fantasmi di minatori deceduti alla leggenda di Spring Heel Jack) rievocato nelle "scorribande" di Griffin presso il piccolo villaggio; l'aspetto teatrale degli interni che, comunque, non tradisce minimamente la natura totalmente cinematografica della narrazione (è difatti il contrasto tra interni ed esterni, e quello tra amici innamorati di una stessa donna, a riflettere in tutti i film fanta-horror di Whale (escludendo parzialmente The old dark house) il conflitto interiore del protagonista, che cerca sempre di fuggire, freudianamente, dalle condizioni avverse provenienti dagli spazi aperti); e, infine, la neve che apre e chiude il film, simbolo di condanna e dannazione (come ne I morti di James Joyce), dopo l'ennesima, impossibile fuga da un altro rogo (Frankenstein) e da un altro se stesso.