Simbolismo, commistione tra miti antichi e moderni, critica della società capitalista, esaltazione dell'arte figurativa. Come suggerisce la nostra recensione di Valley of the Gods, c'è tutto questo e molto altro nel nuovo film del cineasta polacco Lech Majewski che, anche stavolta, non esista a dimostrarsi più innamorato della natura visiva del cinema che della trama. In Valley of the Gods si intrecciano varie storie che rischiano, però, di passare sottotraccia di fronte a immagini maestose che magnificano la potenza della natura - la Valley of the Gods del titolo, sorella meno famosa della Monument Valley - e l'ingegno umano, gli interni del palazzo del miliardario Wes Tauros, modellati sui capisaldi dell'arte rinascimentale italiana.
Protagonista di Valley of the Gods è Josh Hartnett nei panni di John Ecas, scrittore frustrato abbandonato dalla moglie e allontanato dall'azienda per cui lavora come creativo. Dopo essere stato invitato dal suo analista a fare qualcosa di davvero folle e liberatorio, John si reca nella Valley of the Gods, dove si erge l'oscuro palazzo di Wes Tauros (John Malkovich), per scrivere la biografia del misterioso miliardario. Qui si imbatte in Karen (Bérénice Marlohe), sosia della moglie defunta di Tauros che ha accettato di impersonarla per motivi personali. Il terzo filone narrativo riguarda la comunità Navajo, in lotta contro la multinazionale di Wes Tauros che vuole acquisire i terreni dei nativi per estrarre l'uranio mentre loro proteggono le terre sacre dei loro antenati.
Batman, Alfred e l'invettiva contro il cinema commerciale
La temporalità di Valley of the Gods non è lineare, raramente gli eventi vengono presentati in ordine cronologico. Lech Majewski rimescola costantemente le carte in tavola costruendo un film libero, scandito da capitoli indipendenti accostati l'uno all'altro per suggestioni tematiche o per contrappunto. La dimensione onirica ha un peso notevole nell'economia della pellicola. Le immagini di John Ecas che, a torso nudo, scrive il suo libro dopo aver posizionato la propria scrivania tra le rocce della Valley of the Gods sono vere o si tratta solo di una delle tante suggestioni visive di cui il film è ricco? Al regista non interessa tanto chiarire cosa sia reale e cosa no quanto solleticare lo sguardo dello spettatore con immagini simboliche ed enigmatiche.
Se molto è lasciato all'interpretazione, vi sono però alcuni messaggi rivolti al pubblico che risuonano in modo forte e chiaro nello script firmato dallo stesso regista, frutto di un lavoro durato decenni e di varie esplorazioni della Navajo Country. Nella sua invettiva contro l'esistenza frenetica di Los Angeles, un Josh Hartnett turbato e depresso si scaglia contro "quei film con tizi che se ne vanno in giro volando, Bond o Cruise che saltano dal decimo piano atterrando senza farsi niente", una stilettata diretta a cinecomic e blockbuster, tutto ciò che Majewski sembra rigettare col suo cinema astratto e intellettuale. La critica di Lech Majewski al cinema commerciale non significa, però, che l'artista ignori la materia. Se da una parte le parole di Josh Hartnett sembrano voler prendere le distanze da quell'universo, i riferimenti all'universo di Batman (l'esistenza oscura di Wes Tauros che sembra presa di peso da quella di Bruce Wayne con tanto di Keir Dullea nel ruolo del maggiordomo Alfred) o a certi disaster movie (il finale catastrofico) svelano il gioco del regista che intreccia antiche leggende e moderni miti pop in un raffinato melting pot. Neppure lui sembra sfuggire al fascino di quella contemporaneità contro cui punta il dito.
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Un'opera citazionista e intellettuale, non per tutti
In parallelo alle vicende di John Ecas e Wes Tauros, vari capitoli di Valley of the Gods sono dedicati ai Navajo. Nel tentativo di denunciare la condizione in cui versano, Lech Majewski mette in scena l'isolamento, la disoccupazione e la mancanza di prospettive della comunità, ma all'afflato sociale si aggiunge quello etnografo. Il regista, affascinato dai loro riti e della loro mitologia, prova a tradurre in immagini alcune antiche leggende con risultati altalenanti (la straniante scena di sesso di un nativo con le stesse rocce che, in seguito, genereranno un bambino). Ben più affascinanti i momenti di taglio documentaristico che indagano il folclore di un popolo che ancora oggi vive in simbiosi con la natura ed è capace di leggerla meglio di chiunque altro.
In tema di scontro tra natura e cultura, il contrasto tra le cattedrali di roccia del deserto dei Navajo e la dimora barocca di Wes Tauros è un leit motiv costante. Nella visione di Lech Majewski, l'uomo più potente del mondo stipa la sua dimora di riproduzioni delle opere più celebri dell'arte italiana, dalla Fontana di Trevi alla Cappella Sistina arrivando, in una delle scene più enigmatiche ed eccessive, a lanciare con una catapulta un'auto d'epoca giù dal dirupo. Pur guardando a Wim Wenders per il connubio tra dimensione spirituale e sguardo sul reale, a Valley of the Gods manca l'afflato poetico del regista tedesco. Le metafore di Lech Majewski risultano o troppo didascaliche (l'eccesso di ricchezza di Tauros si traduce nell'asserto che il denaro non può compare la felicità) o troppo impenetrabili. La voglia di comprendere la spiritualità dei nativi attraverso l'osservazione dei loro riti occupa molto spazio, a scapito di un personaggio con grandi potenzialità come quello di Bérénice Marlohe, archiviato dopo poche scene.
Valley of the Gods mette alla prova lo spettatore con sequenze pretenziose, enigmatiche, dense di citazioni - da Fellini a Malick passando per Kubrick (Keir Dullea è una citazione vivente). Il tono generale è tanto distaccato da rendere ardua l'empatia nei confronti dei personaggi, strumenti nelle mani del regista il cui vero interesse, dietro la regia maestosa e le trovate immaginifiche, è tradurre in immagini la sua idea di arte e usarle per lanciare quei messaggi che gli stanno a cuore con risultato sontuoso, ma asettico.
Conclusioni
La nostra recensione di Valley of the Gods evidenzia pregi e difetti della parabola barocca di Lech Majewski contro le storture della contemporaneità. Il film interpretato da Josh Hartnett, John Malkovich e Bérénice Marlohe mescola miti pop della contemporaneità e antiche leggende Navajo in una parabola simbolica che attinge all'universo onirico mescolando sequenze di stampo documentario e momenti altamente simbolici. Non sempre lo spettatore, stimolato dalla bellezza delle immagini, è in grado di interpretarne il significato recondito in un film volutamente difficile, ma visivamente maestoso.
Perché ci piace
- La maestria registica e la visionarietà del regista Lech Majewski trova qui complimento nella massima libertà.
- La bellezza della Valley of the Gods ci affascina tanto quanto le curiose trovate futuristiche che il film contiene.
- Le citazioni pop da Batman e dai disaster movie.
- Lo sguardo etnografico sui Navajo produce sequenze affascinanti...
Cosa non va
- ...anche se la traduzione letterale in immagini di alcuni antichi miti non sempre funziona.
- L'eccessiva oscurità si accompagna al tono freddo e distaccato, rendendo il film non "per tutti".