Con più di 30 milioni di dollari incassati negli Stati Uniti, a fronte dell'unico milione di budget, era chiaro che Unfriended avesse almeno un aspetto degno di nota, un particolare in grado di fare la differenza nel bene o nel male. In effetti, quello che il film di Levan Gabriadze offre è un innegabile fascino dell'immediato, coerente nella forma estetica e nella rappresentazione del "tempo reale". Sia chiaro, non è certo il primo mockumentary horror della storia del cinema (in verità non ci va neanche vicino); ma la sua dose di originalità ne costituisce un prodotto che, se contestualizzato nella stretta morsa del presente, funziona.
Un gigantesco desktop
Bisogna capire di cosa stiamo parlando. La vera particolarità di Unfriended è che lo spettatore osserva tutto tramite desktop di un PC (pardon, Mac). È lui ad occupare l'intero schermo cinematografico e lui ad attestarsi come protagonista fisico e morale. In un certo senso, "è" e "fa" la storia. Il desktop è quello di Blaire Lily (Shelley Henning), graziosa ragazza apparentemente nella media. L'azione è resa viva da video su Youtube, messaggi istantanei, siti internet, canzoni a tutto volume, ma soprattutto da una conversazione in webcam via Skype tra Blaire, il ragazzo ed altri amici. La magia delle webcam simultanee permette si osservare ciò che succede ad ogni personaggio in tempo reale e, soprattutto, contemporaneamente.
Ma c'è un agghiacciante incomodo: nella video-chiacchierata si infiltra un'altra amica, suicidatasi l'anno prima, misteriosamente tornata per cercare vendetta. In qualche modo ritiene responsabili gli amici del suo suicidio e non farà sconti per destinarli alla medesima fine. Inutile negarlo: la forma di Unfriended sovrasta e devasta quale che sia la sinossi, per cui è possibile e forse doveroso, chiudere un occhio su una trama "facilona" e spesso "tirata via" in favore di altri aspetti. Nessun personaggio è profondo e le informazioni che riusciamo a raccogliere arrivano in parte dal materiale di repertorio mostrato attraverso il computer; in parte da una storia che si compie "durante".
Schermi negli schermi
La buona riuscita a livello estetico passa anche da una gestione accurata e bilanciata delle immagini. C'è un interminabile filtro che si inserisce tra spettatore e personaggi ed è lo schermo del computer. Le figure umane o quanto di meccanico possa esistere nel film, appaiono sempre "filtrate" dalla luce, dai suoni, dall'artificialità dello schermo. Ne beneficia la difficoltà di un'identificazione tra le due parti e un curioso gioco di prospettiva: nonostante la pellicola sia offerta interamente attraverso il desktop della protagonista femminile, quindi attraverso i suoi occhi, per buona parte ce ne dimentichiamo. Stiamo guardando uno schermo nello schermo, ma l'azione generata dai protagonisti via webcam non ce ne fa ricordare; la sensazione è quella di una prospettiva e di uno sguardo comune a tutti. Ne esce una narrazione che in linea teorica procederebbe in prima persona, ma che invece ci risulta in terza. Non ultimo, influisce anche il veder riproposto sullo schermo il volto della protagonista. Del resto, la sua figura è restituita dall'immagine webcam e non sembra perciò una spettatrice esterna. Le immagini riescono anche a far rumore. Ma i momenti emotivamente più coinvolgenti si raggiungono quando restano in silenzio. Tra il fastidioso parlottare dei personaggi, si inserisce di tanto in tanto la ricerca silenziosa della protagonista, che tenta di trovare una via d'uscita attraverso il suo pc. Ed è lì che lo spettatore ricorda che la storia gli è offerta attraverso i suoi occhi.Paradossalmente, quando il film tenta di spezzare l'apparente monotonia della narrazione nel tentativo di legittimarsi e introdurre temi "alti", come l'amicizia o l'amore, esce da quell'immediatezza che lo contraddistingue e interrompe la sua natura schietta e lucida. Funziona più come esperimento fine a se stesso che come tentativo di fuoriuscita, nella speranza di smuovere le carte in tavola. Da un certo punto di vista è normale che lo faccia, perché la necessità di dare una svolta alla storia è un'esigenza produttiva non di poco conto; ma avrebbe dimostrato più coraggio se fosse rimasto fedele alla sua linea, lontano dal pericolo di esagerazioni forzate della narrazione.
E l'horror?
È lecito chiedersi allora come il film gestisca la componente horror. La risposta è che lo fa in modo atipico, puntando poco su giochi di prestigio per mantenere viva la tensione e privilegiando invece un costante senso di incertezza ed impossibilità. Così come il personaggio non sa come uscire dalla situazione in cui si è cacciato e non ha altre armi se non quella di disperarsi, anche lo spettatore viene catturato dallo stesso stato d'animo. Qualche goccia di sangue guadagna comunque lo schermo, ma siamo lontani anni luce da horror costruiti per risultare espliciti.
Lo ripetiamo, Unfriended è un film che va inquadrato nella sua forma esteriore, per come appare e per come si mostra allo spettatore, senza metafore di sottofondo e come horror fuori dagli schemi. Il suo punto di forza è anche il suo limite: sopravvive solo se contestualizzato nell'immediato presente.
Movieplayer.it
2.5/5