Una ragazza brillante, quando la bellezza diventa "dipendenza"

"I social generano una tirannia dell'immagine. La Francia? C'è libertà di sperimentare". La nostra intervista alla regista Agathe Riedinger.

Agathe Riedinger

C'è una certa energia nel cinema di Agathe Riedinger. Vivido, saturo eppure sensibile. Basti vedere Una ragazza brillante (Wild Diamond), il suo primo lungometraggio, passato Festival di Cannes. "Nessuno di noi ci credeva davvero che il film potesse arrivare in un festival così importante", racconta la regista. "Mi avevano detto di non pensarci neanche, che sarebbe stato impossibile. Quando è accaduto, è stato uno shock, una gioia enorme, ma anche una pressione indescrivibile".

Una ragazza brillante: intervista ad Agathe Riedinger

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Malou Khebizi, la protagonista

Una ragazza brillante - ambientato a Fréjus, nel Sud della Francia - segue Liane (Malou Khebizi), diciannove anni, ragazza di periferia che sogna di partecipare a un reality televisivo. Il corpo, i selfie, il desiderio di essere vista diventano la sua unica ragione d'essere. Riedinger tratteggia una generazione cresciuta dentro lo sguardo altrui, immersa nei filtri dei social network e nella promessa ingannevole di una visibilità effimera.

"Quando sono arrivati i social", riflette la regista, "sembravano una finestra sul mondo: uno strumento per ampliare la visione, per aprirsi. Ma oggi quella finestra si è trasformata in uno specchio. Se prima dicevamo 'guardate il mondo', ora diciamo 'guardate me'. È un ribaltamento dello sguardo che genera una tirannia dell'immagine, un culto dell'apparenza che distrugge l'amor proprio e la dignità". Del resto, questa è un'opera che si lega al bisogno di essere visti e alla paura di scomparire. E infatti "La bellezza è una forma di dipendenza" dice la regista.

Se la felicità coincide con il successo: una logica pericolosa

Nell'opera questa tensione sociale diventa materia di riflessione. La regista rivede il tema come se fosse il sintomo più estremo dell'epoca ipercapitalista in cui viviamo, dove la felicità coincide con il successo, con il dominio sugli altri. "È una logica crudele", spiega, "che omologa, impoverisce la diversità e crea una ferita collettiva, soprattutto nei giovani. Ci spinge a voler essere identici, impeccabili, a cancellare ogni sfumatura".

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Una scena del film

Agathe Riedinger guarda indietro, cercando le radici di questa ossessione: "Un tempo, per Michelangelo o Canova, l'aspirazione alla perfezione era un atto sacro, un modo per avvicinarsi a Dio. Oggi quella stessa aspirazione è diventata una dipendenza. Continuiamo a cercare la perfezione, ma non più per elevarci: lo facciamo per rassicurarci. La differenza è che prima si cercava di avvicinarsi al divino; oggi si vuole diventare divini. La perfezione non è più spirituale, ma performativa. E la si insegue attraverso il corpo, la chirurgia estetica, la manipolazione dell'immagine o l'intelligenza artificiale". Il risultato è un'estetica dell'eccesso. "Siamo molti di più, oggi, a voler diventare Dio", aggiunge, "mentre un tempo si cercava solo di avvicinarsi a lui".

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Prima di arrivare al cinema, Riedinger ha costruito il proprio linguaggio visivo girando pubblicità e videoclip, esperienze che le hanno insegnato la sintesi e la potenza dell'immagine. "È stata una scuola straordinaria", confida. "Nel formato breve devi dire tutto in pochi secondi: impari che ogni immagine deve avere un senso narrativo, non può essere gratuita. È da lì che nasce la mia ricerca di densità visiva: creare immagini che siano al tempo stesso belle e piene di racconto. Non mi piace molto la parola 'efficacia', ma è proprio questo: condensare emozione e significato. E forse aggiungere un pizzico di stupore, quel momento di meraviglia che appartiene alla pubblicità ma che, se trasformato, può diventare cinema".

Il cinema contemporaneo

Parlando del panorama contemporaneo, Agathe Riedinger mantiene tuttavia una visione lucida. Riguardo alla crisi creativa di Hollywood, osserva: "Non credo che il cinema europeo debba sostituire quello americano. Sono due cinematografie fondate su miti e sensibilità differenti. Anche in un mondo globalizzato, continuiamo a raccontare storie con prospettive diverse. E va bene così. Ci sono cicli: a volte un cinema attraversa una crisi, poi rinasce. L'importante è che esistano entrambi. Ne abbiamo bisogno".

Sul fronte francese, la regista respinge l'idea di un paese sempre più moralista o omologato: "Non ho questa impressione. È vero che bisogna restare vigili e difendere la diversità, ma vedo nascere voci nuove, registe e registi che sperimentano linguaggi personali e coraggiosi. Penso a Coralie Fargeat, a Noémie Merlant: modi diversi di raccontare, ma tutti autentici. Mi sembra che il cinema francese stia accettando, più che mai, che la forma possa essere libera, purché non soffochi la sostanza".