La matta io la faccio sempre, per me è... normale. Guarda che non ce l'ho con te, sai? (...) Insomma, io ho sempre capito te e tu anche hai sempre capito me, ed è questa la cosa... la sola cosa che conta, Nick!
Ci sono momenti di profonda, struggente tenerezza fra Nick e Mabel Longhetti: momenti in cui la tempesta si allontana per lasciare il posto a una quiete insolita, tanto più preziosa quanto più ne avvertiamo la precarietà inesorabile, consapevoli che quell'equilibrio esilissimo potrebbe incrinarsi in qualunque istante. Su questa tensione continua, sull'attesa di un uragano che sembra destinato a non esaurirsi mai del tutto, il regista e sceneggiatore John Cassavetes ha costruito quello che, a mezzo secolo di distanza, continua a essere ritenuto non soltanto il vertice della sua filmografia, ma una delle opere fondamentali nell'evoluzione del moderno cinema americano: A Woman Under the Influence, distribuito negli Stati Uniti il 18 novembre 1974 e conosciuto in Italia con il semplice titolo Una moglie.
Pellicola imprescindibile nell'ambito della rivoluzione della grammatica cinematografica portata avanti dalla New Hollywood, ma al tempo stesso talmente singolare da essere refrattaria a ogni tentativo di categorizzazione, Una moglie costituisce in tal senso una sorta di unicum, o quantomeno un film apripista, in cui si intrecciano due tendenze solo apparentemente opposte: il naturalismo esasperato del cinéma vérité, di cui John Cassavetes si era proposto già da tempo come alfiere nel panorama americano, assorbendo la libertà creativa propria di vari cineasti europei; e le ardenti impennate emotive del melodramma, genere rivisitato secondo un approccio che rinuncia alla stilizzazione per abbracciare al contrario un radicale realismo. Un realismo che, attraverso la cinepresa del regista newyorkese, diventa strumento di analisi delle nevrosi della società contemporanea.
Il cinéma vérité secondo John Cassavetes
Una moglie, settimo lungometraggio di John Cassavetes, esce a quindici anni dalla sua innovativa opera d'esordio, Ombre, produzione a bassissimo costo che aveva ribaltato le convenzioni del cinema degli anni Cinquanta. Dopo alcuni lavori su commissione per conto degli studios, nel 1968 Cassavetes torna a dedicarsi a un progetto più personale con Volti, altra pietra miliare della New Hollywood, guadagnandosi inaspettati consensi da parte della critica. Mentre i successivi Mariti e Minnie e Moskowitz si spostano verso i territori della commedia, pur conservando l'impronta stilistica tipica del regista, con Una moglie Cassavetes torna a puntare lo sguardo sulle disfunzionalità dell'istituzione familiare e sui meccanismi che le alimentano in un inarrestabile circolo vizioso, alludendo però anche alla perdita d'identità delle donne nella cornice della classe proletaria degli anni Settanta.
Chi è davvero Mabel Longhetti? È l'implicita domanda attorno a cui ruota il film, cronaca della rapida discesa nella follia di una casalinga della periferia urbana di Los Angeles, madre di tre bambini e moglie del capocantiere Nick Longhetti, impersonato da Peter Falk. Una cena romantica con il marito, mandata a monte dal ritardo di Nick in seguito un imprevisto sul lavoro, si dissolve in un vortice di delusione: quanto basta a spingere nuovamente Mabel sotto l'influenza dell'alcol (il titolo originale, A Woman Under the Influence, indica appunto la perdita di lucidità mentale) e fra le braccia di uno sconosciuto abbordato in un bar, ma soprattutto in una spirale di paranoia, depressione e impulsi autodistruttivi. Una spirale che si consuma sul corpo e nel volto di Gena Rowlands, moglie e partner artistica di Cassavetes, qui alla sua quarta collaborazione con il marito.
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La Mabel di Gena Rowlands, tra vulnerabilità e ferocia
Salita alla ribalta inizialmente grazie alla TV, in particolare con la soap opera Peyton Place, Gena Rowlands aveva avuto occasione di mostrare la sua versatilità sul grande schermo proprio in film come Volti e Minnie e Moskowitz, prima che John Cassavetes decidesse di scrivere per lei il ruolo di questa donna in crisi e perennemente in procinto di esplodere. E la Rowlands si immerge nei panni di Mabel Longhetti con un'intensità senza precedenti, tracciandone un ritratto in cui la vulnerabilità e la ferocia rappresentano due aspetti complementari e inscindibili del personaggio. È una creatura fragilissima, la sua Mabel, e Gena Rowlands la mette a nudo con una performance dalla sincerità disarmante, in grado di trascinare lo spettatore negli abissi della sua psiche devastata, ma senza mai offrire facili risposte in merito alle cause di tale malessere.
La villetta di Nick e Mabel funge pertanto da campo di battaglia per un gioco al massacro sempre più rabbioso, in cui l'amore fra i due coniugi si scontra con l'impossibilità di aderire appieno al modello di ciò che la gente considera 'normale'. Non che Mabel non faccia i suoi sforzi: "Dimmi chi vuoi che io sia", è la supplica rivolta a Nick; quando il marito porta a casa la sua squadra di operai, la donna si dedica a preparare spaghetti per tutti i presenti con una solerzia da cui trapelano scintille di ossessione, mentre la festa di compleanno con gli amici dei figli è dominata dalla vivacità inquieta - e inquietante - della padrona di casa, che improvvisa una danza sulle note de Il lago dei cigni. La tragicità di Una moglie scaturisce in primo luogo dal suddetto contrasto: un disperato desiderio di normalità costretto a infrangersi contro le pareti invisibili entro cui è ingabbiata la mente della protagonista.
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Amore e guerra, scivolando nel baratro
Roger Ebert, uno dei più accesi estimatori di Cassavetes, osserva: "Non c'è alcun epilogo rassicurante alla fine di un film di Cassavetes. Si sente che il tumulto della vita prosegue ininterrotto, che ogni film è un sipario sollevato su un dramma già in corso. I personaggi cercano di dare amore, di riceverlo, di esprimerlo, di comprenderlo. [...] i loro dialoghi sono un grido d'aiuto da dietro le sbarre". E forse nessuna sua opera ci restituisce il "tumulto della vita" con la stessa, fragorosa potenza di Una moglie, di cui fin da subito vengono riconosciuti i meriti: accolto da un consenso pressoché unanime, il film si guadagnerà due nomination agli Oscar per la regia di John Cassavetes e per la prova di Gena Rowlands, ricompensata anche con il Golden Globe come miglior attrice. Non a caso Mabel Longhetti sancirà la punta di diamante della sua carriera, uno di quei ruoli capaci di ridefinire i canoni della recitazione da lì in poi.
Il "grido d'aiuto" di Mabel si articola infatti in un'interpretazione che lascia senza fiato, a partire dal modo in cui la Rowlands riesce ad amalgamare una pluralità di elementi dissonanti: la teatralità allucinata e una nervosa spontaneità da cui traboccano angoscia e sofferenza; il comportamento erratico, fonte incessante di sgomento, e la granitica ostinazione nel tentare di sottrarsi al baratro; la violenza isterica di una belva in trappola e quel dolore sotteso, inesprimibile, a cui Mabel si sforza di dar voce quando, nella sua straziante dichiarazione d'amore a Nick, elenca in cinque punti le basi del loro rapporto. È su tali dissonanze, sull'enigma di una donna in guerra con i propri cari perché innanzitutto in guerra contro se stessa, che Gena Rowlands disegna questo personaggio indimenticabile: il cuore pulsante di un film in cui il vuoto della quiete rischia di risultare ancor più pauroso della furia della tempesta.