È una giornata come tante. Lui e lei si tengono per mano nella metro di Roma. Sembrano innamorati; lui appare rassicurante, lei si abbandona sulla spalla del suo uomo. Poi succede qualcosa, qualcosa che spinge la fragile Maria a lasciare la mano del suo Vincent e scendere dal treno per rincorrere qualcuno che le sembrava familiare. Chi era quel qualcuno? La scena che apre il morboso Una famiglia è l'indizio di una frustrazione latente, il primo, goffo tentativo di fuga di una donna ingabbiata dentro una relazione malata. L'opera seconda di Sebastiano Riso, che ritrova Micaela Ramazzotti dopo il suo esordio con Più buio di mezzanotte, è stato uno dei film italiani in concorso a Venezia 74, forse il più cupo e difficile delle pellicole nostrane presenti al Lido. Difficile perché l'argomento trattato scomoda il mercato nero dei neonati, un tema complesso e poco esplorato dal nostro cinema che, però, rimane sempre sullo sfondo senza mai spodestare il nucleo del film: i labili equilibri di una coppia perversa.
Una famiglia si presenta con un titolo amaro, un titolo abile nel cogliere il desiderio frustrato della sua oppressa protagonista. Sì, perché Maria e Vincent non sono affatto la bella coppia di innamorati che abbiamo intravisto in metro, e nemmeno un nucleo familiare pronto ad allagarsi, ma due persone legate da un peccato comune, due anime segnate da una dipendenza vischiosa e sporca.
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La madre bambina
Dramma domestico fondato su una matassa inestricabile di scompensi affettivi, Una famiglia trova il suo habitat naturale nella casa glaciale di Maria e Vincent. Un'abitazione spoglia, priva di calore, di personalità e di ricordi. Riso rinchiude i suoi personaggi dentro un luogo freddo dalla duplice funzione. Per l'oppressa Maria quella casa è un carcere, una prigione in cui non vi è mai amore tra le coperte, né puro ossigeno fuori dalla finestra. Per Vincent quella casa è un laboratorio, un posto dove dare vita ogni volta ad un nuovo obbrobrio. Sì, perché Maria partorisce di continuo ma non diventa mai mamma, facendo delle sue timide speranze terra bruciata ogni volta. Per questo spesso le capita di riconoscere qualcuno per strada, magari uno dei tanti bambini venduti al miglior offerente. La parte migliore de Una famiglia è proprio il suo dedicarsi con scrupolosità al corpo fragile e bistrattato di una Micaela Ramazzotti scavata e sofferente. Riso ne viviseziona ogni parte, dalle mani trascurate agli occhi spenti e privi di luce, mostrandocela rinchiusa dentro se stessa e incapace di ribellarsi all'orrore di cui è partecipe. Quella di Maria è una fragilità di una donna quasi bambina, di chi accetta senza reagire, di chi subisce e acconsente senza scelta. Così il film diventa una lenta e disperata presa di coscienza di una donna (e di una mamma) finalmente capace di ritrovare la sua umanità.
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Lontano dal cuore
Se la cura scenografica, la scrupolosità registica e la fotografia bluastra riescono a restituire il cupo squallore delle vite di Vincent e Maria, purtroppo la scrittura non sostiene affatto un film che risulta freddo come i suoi ambienti scorticati. Sfavorito da una sceneggiatura farraginosa e da dialoghi troppo artefatti, Una famiglia non riesce a smuovere sentimenti nelle coscienze non abbastanza turbate dello spettatore. È come se il cuore emotivo del film fosse circondato da una spessa cupola di vetro. Difficile da perforare e da varcare, questa patina artificiale impedisce al pubblico di entrare in empatia o di provare odio verso questi personaggi dal passato oscuro, dal presente misero e dal futuro nebuloso. A questo, purtroppo, vanno aggiunte un paio di situazioni davvero forzate che respingono e non aiutano a vivere la tanto agognata fioritura di Maria con la giusta partecipazione. Tralasciando ogni forma di giudizio sulla condotta morale di tutti i suoi personaggi, Riso prende così tanto le distanze da quel mondo terribile e disperato da invitarci fuori dal suo film difficile, coraggioso, ma profondamente imperfetto.
Movieplayer.it
2.5/5