Una famiglia in vendita
Pascale vive con i suoi due figli gemelli, Thierry e Francois. Ha divorziato da alcuni anni ma suo marito è ancora molto presente nella vita dei ragazzi ai quali concede ogni capriccio. Forse è ancora innamorato di lei che invece vuole rifarsi una vita, magari con Jan, il premuroso vicino di casa. Sarebbe necessario vendere la casa, andare via, ma è impossibile allontanarsi da quella famiglia che anziché rifugio è ormai prigione.
Proprietà privata di Joachim Lafosse, presentato in concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia è un apologo sofferente e sofferto dei rapporti familiari. In parte autobiografico, traccia il doloroso profilo psicologico di una famiglia segnata dal divorzio e ad esso sopravvissuta nel disordine di sentimenti che ne deriva.
Non esiste un solo protagonista.
C'è Pascale, la madre prigioniera del suo ruolo, rosa dai sensi di colpa ed incapace di emanciparsi dall'amore morboso di Francois e dal disprezzo di Thierry, i due ragazzi, gemelli diversi nell'aspetto e nell'animo; c'è la casa, punto d'accumulazione di sentimenti che avvince tra le sue mura e rende schiavi senza nulla domandare. Creature unite sotto uno stesso tetto, incapaci di allontanarsene o di attirarvi qualcun altro; un triangolo esclusivo che soffoca gli stessi protagonisti.
Così fallisce la storia di Pascale con Jan, non appena lo presenta ai figli, e così s'incrina quella di Thierry con Anne, esibita al fratello più introverso come un trofeo durante una visita alla villa.
Il legame fra i protagonisti è soffocante ma indispensabile al punto di non poterlo recidere.
Conflitto che appare evidente nelle numerose scene consumate a tavola, uno dei momenti più reiterati e intimi in una famiglia; costante pretesto per creare attriti fra i protagonisti. Scontri durante l'atto del cibarsi: Pascale imbocca i figli, non potendone sfuggire il giudizio, nutrendoli con uno spirito materno sconosciuto, ma alimentandone quel complesso edipico che rende loro impossibile abbandonare la dimora. La casa come il ventre materno, un luogo accogliente in cui i ragazzi lasciano scorrere mollemente la giovinezza fra labili impegni da universitario per l'uno e la ricerca di un fantomatico lavoro per l'altro. Bambini mai cresciuti che giocano, si azzuffano e si contendono quella madre gelida che li abbandonerà incapace di mantenere un dialogo, lei stessa ragazzina viziata proprio da quel marito che ha ripudiato ma che non smette di vegliare su di lei.
Personaggi fatalmente avvinti come pezzi di un mosaico il quale senso si compie solo nella negazione della libertà altrui. Quando la madre cerca di vendere la casa i figli si oppongono con tutte le forze perché questo significherebbe l'uscita dal limbo d'eterna infanzia: dovrebbero affrontare la vita adulta, magari separarsi, di certo affrancarsi da quel luogo dove albergano tutti i ricordi e piuttosto che far ciò, si scagliano contro la madre alimentandone a tal punto il senso di colpa dal farla desistere anche sui progetti d'indipendenza.
Così Pascale scompare, lasciando soli i ragazzi fino al drammatico epilogo che la riporterà a casa in una bellissima scena in cui raccoglie pezzi di vetro insieme al marito; i frantumi della loro famiglia, nuovamente inghiottita in un destino senza soluzione di continuità.
Grande attenzione nella scelta del cast, in particolare per i figli; Lafosse ha chiamato gli attori Yannick Renier e Jeremie Renier, due veri gemelli per ricreare un clima d'autentica intimità.
Il ruolo della madre è affidato ad Isabelle Huppert che si conferma una delle migliori attrici del momento: la sua Pascale è così algida dall'essere meravigliosamente naturale, fragile ma al tempo stesso testarda e dura come la roccia. Una piccola donna prigioniera della sua famiglia, protesa nel solo tentativo di trovare una via d'uscita in un dedalo di sentimenti che la rendono isterica al cospetto dei figli che non riesce, o non vuole svezzare. Il tentativo di vendere la casa è inconsciamente mirato proprio a recidere quel cordone ombelicale che li unisce. Quella grande casa bianca e nera, con tante stanze caotiche, immersa in una campagna che li risucchia e li tiene separati dal resto del mondo attraverso una lunga striscia d'asfalto che si snoda nell'ultima ipnotica, bellissima scena strappa-applausi.
Sobria la regia che si avvale della sceneggiatura scritta a quattro mani da Francois Pirot e lo stesso Lafosse. Le inquadrature fisse traducono in immagini la sensazione che i personaggi si trovino in un ambiente che non riescono ad abbandonare se non uscendone fisicamente e la sensazione di freddo e nettezza che si respira ad ogni scena, congela i sentimenti ad una dimensione disperata.
Il titolo interpreta il pensiero dei figli rivolto alla casa e quindi alla madre, come se il loro nucleo fosse circoscritto da un limite invalicabile.