Una culla drappeggiata di nero
Tratto dal romanzo omonimo di Ira Levin, Rosemary's baby è senza dubbio il capolavoro di Roman Polanski, un concentrato in tinte cupissime di discesa nella suspance hitchockiana e surrealismo nero quasi bunueliano.
In questo film dal ritmo lento, ondivago eppur serrato, Polanski inserisce nei termini realistici della storia di base (una giovane coppia, il trasloco, la maternità) temi iconici o tematici di tipologie diverse: se il condominio, inquadratao sui titoli di testa in un plongéé straniante, rimanda ad alcune scenografie espressioniste per la sua ricchezza di spigoli e guglie e cupe volte, la storia del figlio di Satana è retaggio di molta letteratura di genere, qui trattato con un piglio nuovo che non trascura affatto la psicologia dei personaggi, elevandola al contrario a fulcro stesso della storia, fitta di opposizioni estetico caratteriali. Rosemary è il puro istinto materno, la debolezza, l'esilità di carattere di una donna lasciata lentamente sola col proprio travaglio, tirata e spinta in una storia che le appare (ci appare) sempre più invischiata con toni surrealistici. La voglia di maternità è confermata a più riprese sin dalle prime immagini del film, tanto che non fatichiamo a renderci conto che è attorno alla filiazione, al grembo meterno, che la storia finirà per condurci. La discesa è lenta e nerissima. Una delle scene più forti del film - una delle più apprezzate scene dell'intera storia del cinema - è quella dell'accoppiamento, inconsapevole, tra Rosemary ed il diavolo: sequenza onirica e straniante, densa di cupo terrore atavico, pone il film su due binari paralleli e, a ben vedere senza via d'uscita: la maternità come pienezza di sé e la maternità (questa precisa maternità) come terrore di sé.
Il film pone subito in luce quello che sarà il "teatro" (in senso ampio, come vedremo) della storia: il condominio newyorchese "Dakota", in passato sede dei più atroci delitti e ammantato da magia nera, un complesso di mattoni vermigli e tetti spioventi, corridoi dall'intonaco cadente e tramezzi sottili attraverso i quali si posso sentire distintamente i litigi dei vicini. Iconicamente l'edificio appare come un labirinto lasciato cadere in disuso, una patina di degrado ormai sedimentata da tempo ed a cui la nuova coppia, soprattutto nella volitiva Rosemary, tenterà di porre rimedio. L'appartamento che i due decidono di affittare è polveroso e rovinato dal tempo, lasciato vuoto dalla morte di una vecchia signora anziana, patita di botanica. Rosemary, la buona borghese con i sogni impressi negli enormi occhi celesti, si impegna a (ri)dare all'appartamento uno splendore ed un impronta diversa, arredandolo modernamente (riempiendo le pareti di oggetti e status symbol), quasi volesse creare il "nido" perfetto per la sua voglia di maternità. Personaggio appassionato e dolcemente materno, Rosemary fin dall'inizio si mostra incline al versante della sessualità. In una scena in particolare, all'inizio del film, in un appartamento ancora desolantemente vuoto, ella domanda al compagno di fare l'amore per terra, sulle assi rovinate del parquet, nella penombra inquietante dei cattivi presagi: madre ancor prima di esserlo, Rosemary incarna il personaggio invischiato, in senso positivo, col sentimento(alismo), unico carattere solare in un film pieno di maschere nere e beffardamente arcigne.
Il condominio "Dakota" è il palcoscenico perfetto di una commedia drammatica borghese. I personaggi ci sono tutti, così come le caratteristiche scenografiche: la donna vittima dei raggiri altrui, il cuore puro e buono (in attesa del finale a sorpresa), il marito bugiardo ed arrivista, i vicini di casa senza ritegno, - una magistrale Ruth Gordon, personaggio straniante, caratterizzato da un'ironia tagliente e cupa e da una sviluppatissima arte del sotterfugio - il buon amico esterno al dramma, quasi la coscienza critica di Rosemary e una manciata di altri personaggi che arricchiscono il dramma. Rosemary, venuta a conoscenza della ragnatela che ne ha ormai segnato il destino, vorrebbe scappare, ma la sua fuga nell'esterno (fuori dal "teatro" e dentro alla città) è senza speranza, tutto ormai discende verso un finale prestabilito ed irrinunciabile.
Il motore dell'azione è, a ben vedere, il marito di Rosemary. Attore fallito con speranze fumose di fama, egli non esita a sacrificare (perché è di questo che si tratta, di un sacrificio, immolata la Vita per la Morte) la propria moglie ed il di lei grembo per un futuro tra i quattro lati di un televisore o le assi di un palcoscenico. La maternità è il pegno per il successo e siccome appartiene unicamente (e maschilisticamente) alla moglie (grembo, doglie e parto), non è difficile accordarsi come nel migliore degli affari. I vicini, i coniugi Castevet, fautori della proposta e del sortilegio, hanno trovato in un attore l'animo debole da corrompere: mania dell'esteriorità, esibizionismo e debolezza, ecco il pungolo del Diavolo.
La vecchia storia del patto col Diavolo qui si trasla sul versante moderno, con tutte le differenze del caso: la normalità apparente dei vicini è l'amo, la debolezza borghese dell'attore pieno di sogni è la leva, il grembo di Rosemary il terreno in cui il seme diabolico verrà fatto crescere, sino a diventare frutto nero alla fine del film.
Il finale ha fatto storia. Confusa da un parto irreale, Rosemary sente il proprio istinto materno richiamarla fortemente alla vita. Il bambino le è stato sottratto senza che potesse vederlo, come un frutto che ormai non le appartiene. Le è stato detto che è morto durante il parto. L'istinto materno è una forza unica e Rosemary continua a sentire nelle orecchie il pianto di un bambino, il suo bambino: pianto che viene dal rimpianto o pianto che giunge dalla realtà? E' sera. Rosemary si alza dal letto, ancora debole e come svuotata. Sente delle voci, ha sentito il pianto. La scenografia del dramma borghese gli permette di poggiare l'orecchio al sottile tramezzo del piccolo ripostiglio e sentire delle voci. Percepire una presenza che è sua, percepire il richiamo del bambino. Così sposta le assi del ripostiglio e scopre la più classica delle porte nascoste, trovata teatrale delle più classiche. La botola dà sull'appartamento dei vicini carnefici. Rosemary si avventura lungo il corridoio buio, verso il salone illuminato sul fondo. I suoi primi passi nella stanza sono lenti e incerti. Il salotto borghese, illuminato e rosso, pieno di gente ormai anziana, è vociante ed allegro. Sullo sfondo, pugno nello stomaco, una culla. Nera, di nero drappeggiata: un abisso. Ecco il figlio del suo grembo, ecco il frutto marcio. Rosemary grida, si sporge per guardare cosa le è stato sottratto e ne rimane devastata: cosa gli avete fatto, domanda, e ci lascia intendere che la normalità è assente dal volto, dal corpo dell'infante. Polanski gira questa scena finale in modo impeccabile, relegando nel non visto della culla nera il volto ed il corpo del figlio di Satana, inserendo appena percettibilmente sullo sfondo delle coltri nere della culla stessa una sovrimpressione di un paio d'occhi scintillati e malvagi. Nessun facile cedimento allo scontato registro da film dell'orrore, che avrebbe voluto od imposto, a questo punto, un primo piano del volto mostruoso dell'infante. Non mostrandocelo, restituendocelo dagli occhi enormi della madre e celandolo dietro la cortine corvine di una culla già di per sì mostruosa, Polanski ottiene due risultati: alza la tensione a massimi livelli e la fa restar tale sino ai titoli di coda.
Il finale, immerso in questo liquido amniotico di scura tensione, è implacabilmente votato al ribaltamento dei caratteri. Rosemary siede disperata su di una sedia, discosta dalla culla che guarda come qualcosa che le è estraneo, come un pericolo. Ma è un attimo. Il pianto del bambino mostro le risveglia il prodigioso istinto materno che serba in cuore. Può una madre dimenticare il proprio figlio? Assai più semplice dimenticare il padre, il seme di Satana, e alzarsi dalla seggiola per cullare con amore quell'infante dal destino segnato. Si è mamme ben prima di essere madri.