Lo skyline più famoso del mondo fotografato in bianco e nero dal fedele Gordon Willis, la splendida Rapsodia in Blue di George Gershwin come colonna sonora ed in più il voice-off di Ike, alter-ego alleniano per eccellenza, che tenta di scrivere un incipit di un romanzo che ha come scenario New York. Fin dalla prima scena è evidente che Manhattan ha un' unica indiscussa protagonista, così com'è indubbio che sia uno dei film simbolo della Grande Mela, ritratta in tutte le sue contraddizioni e angolature, come "metafora della decadenza della cultura contemporanea" o come santuario di tutto ciò che il regista Woody Allen "idolatra smisuratamente".
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Proveniente dal successo di critica e pubblico ottenuto con Io e Annie, Allen si dedica al suo progetto più personale, un'opera che diventerà un punto di svolta nella sua carriera, consacrando il passaggio (non definitivo, ormai possiamo dirlo con certezza) dalla commedia surreale degli esordi a risate più amare, con una visione della vita e soprattutto della coppia più vicina al cinema dell'idolo Ingmar Bergman. In Manhattan è presente in ogni aspetto sia l'Allen cineasta che l'Allen uomo; il suo sguardo alla città che non dorme mai è analitico ed affettuoso allo stesso tempo, il regista la sfiora e l'accarezza con tutti i mezzi che gli appartengono, le immagini cinematografiche, la conoscenza musicale e la scrittura.
Fin dall'incipit, come abbiamo visto, utilizza queste sue "armi" al meglio, facendo in modo che ognuna di esse abbia un suo spazio vitale all'interno della pellicola: tre elementi che riescono a fondersi con dolcezza nelle scene più memorabili.
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Una città in bianco e nero
Tre diverse prospettive per un unico soggetto dicevamo; ma cosa, in realtà, rappresenta New York per Allen? Nonostante siano presenti splendidi ritratti (o primi piani se vogliamo) della città, per Allen altrettanto significativi sono i luoghi di incontro culturale e sociale quali locali e ristoranti, cinema e musei, il Central Park e il planetario, ma anche quelli più intimi come le strade o le panchine deserte durante una passeggiata notturna. Come a dire, l'intera vita di Allen, la sua intera esistenza, è racchiusa nella città in cui vive e che ama probabilmente come poche altre cose al mondo. E non è un caso, appunto, che in un'opera intitolata semplicemente Manhattan sia racchiuso praticamente tutto quello che c'è da sapere sul regista: le sue passioni, il suo rapporto con le donne, con il cinema e la psicanalisi, in un perfetto e pratico bignami di tutta la cultura alleniana di ieri, oggi e domani.
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Allen si mette a nudo, dicevamo, si auto-psicoanalizza perfino, registrando i propri pensieri, elencando le cose per cui vale la pena di vivere, e tra di esse non nomina New York e non nomina Manhattan ma cita piuttosto Groucho Marx, Louis Armstrong, le pere e le mele di Cézanne, i film svedesi "naturalmente" e per finire il viso di Tracy, la ragazzina dolce e sensibile a cui, in un primo momento, aveva preferito la nevrotica e complicata Mary; tutti aspetti profondamente diversi tra loro ma che insieme formano la New York, la Manhattan che Allen ci vuole mostrare. La cosa per cui vale la pena di vivere insomma, che è, paradossalmente, la vita stessa. È così, quindi, che il film diventa forse l'unico veramente ottimista della lunga carriera del regista, un film in cui attraverso il simbolismo chiave di questo luogo rappresentato come magico, pauroso e dispersivo ma al tempo stesso romantico e familiare, Woody Allen celebra la vita, l'amore e la cultura.
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5.0/5