Recensione Lo smoking (2002)

La nuova prova americana di Jackie Chan non si discosta molto dalle precedenti: il divertimento a tratti c'è, la pellicola scorre ma i tempi di "Police Story" sembrano lontani.

Un 'vestito' hollywoodiano per Jackie Chan

Con questo film Jackie Chan prosegue nel suo tentativo, intrapreso alla fine degli anni novanta e portato avanti con alterne fortune, di portare la sua idea di cinema e il suo modo di "essere" attore in occidente. Una battaglia difficile, che fino ad oggi, pur generando prodotti non del tutto disprezzabili, non ha dato i risultati sperati: è difficile ritrovare in film come Rush Hour o Pallottole cinesi tracce della dirompente fisicità, dell'umorismo sboccato e irriverente e dell'inventiva senza freni che hanno fatto grandi opere come Drunken Master, Project A e Police Story (per chi scrive il suo capolavoro). In grado di dire la sua su ogni aspetto della lavorazione dei suoi film, forte di un potere contrattuale sconosciuto alla maggior parte delle altre star orientali, Jackie non ha saputo (o voluto) scegliere registi e sceneggiatori in grado di esaltare le sue doti fisiche e attoriali, finendo per imbrigliare il suo talento in storielle di scarso spessore (da qui i suoi frequenti "ritorni" ad Hong Kong con opere dal taglio più personale, come il recente The Accidental Spy).
Questo film non si discosta, dunque, dalla recente linea del Chan americano, e risulta essere niente più che una discreta commedia, con un mattatore simpatico e magnetico come sempre, ma nessun guizzo particolare. La trama, piuttosto esile, parte con uno spunto comune ad altre pellicole interpretate dall'attore, che veste i panni di un ingenuo che si trova casualmente immischiato in una faccenda pericolosa; l'intreccio poliziesco che ne consegue presenta qui la variante fantastica dello smoking che conferisce poteri sovrumani. Ciò permette al protagonista di mettere in scena le sue gag, alcune molto riuscite (irresistibile la prima scena con Jackie che indossa lo smoking), ma mancanti di un contesto che le racchiuda e le giustifichi. Chan come corpo in movimento funziona ancora: la sua carica fisica resta notevole, il suo funambolismo continua a catturare l'occhio (anche se in misura minore che in passato), ma quello che manca è un raccordo tra le varie sequenze, una regia che riesca a tenere in piedi autonomamente il film, che senza il suo protagonista crollerebbe miseramente. L'umorismo è innocuo, risaputo e di matrice hollywoodiana, e i personaggi sono niente di più di quello che ci si aspetta: macchiette di scarso spessore. Ci si poteva attendere qualcosa di più almeno dal rapporto tra i due protagonisti, il cui approfondimento avrebbe potuto offrire spunti interessanti e divertenti, ma la sceneggiatura non coglie nemmeno questa possibilità.
L'anonima regia non fa che assecondare il carattere medio della sceneggiatura; il film scorre via tranquillamente, e si lascia guardare per un'ora e mezza senza pensieri, per poi essere dimenticato in fretta. Solo singole sequenze restano in mente, facendo intuire allo spettatore sprovveduto di trovarsi di fronte a un artista straordinario, il cui potenziale è qui solo intuibile. I suoi innumerevoli fan (quelli della prima ora) possono farci poco, in ogni caso: questa è la strada che, da qualche anno, lui stesso ha scelto. Finché la via percorsa rimarrà questa, dunque, pellicole di questo genere saranno, con cattiva pace di tutti, la norma.

Movieplayer.it

3.0/5