Un uxoricida un po' cannibale
E' un po' il destino di tutti i grandi "mostri" dello schermo, quello di subire l'identificazione con il personaggio che ha dato loro il successo, e di tornare ad esso, o ad altri analoghi, più e più volte negli anni. Anthony Perkins ha continuato a interpretare Norman Bates e cloni fin quasi alla fine dei suoi giorni, Robert Englund ha avuto la carriera pesantemente condizionata dalla sua identificazione con Freddy Krueger, mentre Anthony Hopkins è ormai, nell'immaginario collettivo, "il cannibale" (interpretato poi più volte, e sempre con minor convinzione). Certo, Hopkins era riuscito in qualche modo a smarcarsi dal fardello di essere considerato l'alter-ego del dottor Lecter, con una serie di ruoli dai contorni vari, in alcuni casi apprezzabili: ma era inevitabile il ritorno ad un personaggio dai tratti simili a quello che lo impose al grande pubblico, quasi come un pedaggio da pagare a una notorietà che ha origini inequivocabili.
Non si dev'essere sforzato molto, Hopkins, a vestire i panni del malvagio e astuto Crawford, uxoricida riconosciuto che tiene in scacco inquirenti e forze dell'ordine grazie a una ricostruzione del delitto da lui abilmente pilotata. Lo sguardo, le movenze e gli ammiccamenti dell'attore gallese ricordano troppo da vicino quelli di Hannibal Lecter per poter pensare a una sovrapposizione derivata solo dalle aspettative dello spettatore: il ruolo sembra essere stato scritto avendo in mente proprio Hopkins, che da par suo risponde come da copione, riproponendo un'attitudine recitativa che sembra ormai declinata verso il clichè.
Certo, l'idea di un thriller processuale in cui l'identità dell'assassino fosse nota e inequivocabile, con la tensione incentrata sulle modalità di occultamento delle prove, non era del tutto disprezzabile: quello che tuttavia non convince, oltre alla già citata, manieristica prova del protagonista, è una scrittura eccessivamente scolastica e priva della tensione narrativa necessaria, che si va a sommare a una confezione patinata e gratuitamente virtuosistica (opera di un Gregory Hoblit qui in vena di "vezzi" autoriali che non gli appartengono).
Non funziona, questo Il caso Thomas Crawford (titolo italiano per un più secco Fracture, forse allo scopo di riecheggiare il più noto Il caso Thomas Crown di Norman Jewison), principalmente perché tutto giocato su un'esteriorità stucchevole, con movimenti di macchina fini a sé stessi e una fotografia elegante quanto poco funzionale, priva com'è del supporto di un'atmosfera che generi reale inquietudine. Il confronto psicologico tra il rampante avvocato protagonista (interpretato da un Ryan Gosling che appare complessivamente più convincente di Hopkins) e lo scaltro omicida è tutto basato su dialoghi ben poco incisivi, con una fulminea "presa di coscienza" da parte del giovane legale che lascia quantomeno interdetti (difficile immaginare un personaggio descritto come arrivista che improvvisamente venga "toccato" da un puro desiderio di giustizia). C'è inoltre una storia d'amore del protagonista con il suo nuovo capo (la poco sfruttata Rosamund Pike), del tutto ridicola e usata come semplice riempitivo, superflua com'è ai fini dello svolgimento della trama.
Il film conduce lo spettatore in modo corretto, ma anche sostanzialmente anonimo, alla scoperta di una soluzione in fondo non troppo difficile da immaginare, riscattandosi solo in parte in un finale secco e intelligentemente privo di didascalismi.
Movieplayer.it
2.0/5