Recensione Factotum (2005)

Bukowski ispira, nel bene e nel male, una pellicola di indagine nel mondo sotterraneo dell'american's dream, che non sfrutta appieno le sue potenzialità, pur offrendoci un Matt Dillon in stato di grazia.

Un film alcolico

Charles Bukowski, oltre aver scritto il romanzo omonimo da cui è tratto Factotum, in qualche modo è presente in tutto lo svolgersi della storia. Un film alcolico, offuscato, immerso nella nebbia e nei fumi del whisky o della birra, che si dipana con lenta freddezza, con misurato sfascio lungo la vita di uno sbandato, o forse di un sognatore, o magari di un fallito. Di uno che probabilmente racchiude tutte e tre le cose, aggiungendoci, come se non bastasse, il fatto di avere uno strano dono per la scrittura, ma di riuscirla a sfruttare solo (?) all'interno di quel che è il suo mondo, raccontando così storie poco rassicuranti, lontanissime dall'American Dream, ma anche dalle consuete storie di dannazione e riscatto che tanto ipocritamente piacciono al pubblico dei dvd.

La messa in scena è, stranamente, sia il punto forte che la crepa del film.
Il primo aspetto si declina in una studiata lentezza, dell'andamento generale e dell'inquadratura singola, con l'accuratezza di non soffermarsi su dettagli trainspottinghiani, ma lavorando molto sui volti, sulle particolarità di determinate umanità e di determinati ambienti, non avendo paura di andare ad affrontare situazioni poco fruibili e non immediate.
Ma quel che è il suo punto di forza, rischia anche di indebolire strutturalmente un film che si trova invischiato in uno svolgersi dai tratti catatonici e dai colori che sembrano tutti convergere verso un grigio metallico. Una scelta, quella di premiare la riflessività dello sguardo della macchina da presa, che non premia l'incisività e la penetranza di una pellicola che, non foss'altro per le sue origini letterarie, indaga a fondo l'animo umano.

Fortunatamente gli interpreti aiutano l'operazione, caricandosi del bagaglio di responsabilità dell'assumersi il ruolo di veicoli principali della comunicazione filmica, e assolvendolo al meglio delle proprie possibilità. Molto brave le interpreti femminili, sia Marisa Tomei che, in particolare Lili Taylor, vero paradigma della classica "donna da quattro soldi", legata visceralmente al suo uomo da un misto di amore, senso di sicurezza, e di perizia nel fare sesso.
Altrettanto bravo Matt Dillon, che forse raggiunge nel film l'apice della sua carriera (almeno ad oggi) per espressività e senso dello spazio-tempo. Ogni mossa è calibrata alla perfezione, ogni sguardo soppesato, ogni battuta fatta pesare per quel che basta. Se Dillon era l'unico aspetto che si salvava nel fallimentare Crash - Contatto fisico, ultimo vincitore (purtroppo) dell'Oscar, qui è il vero elemento aggiunto di una pellicola di per sé ambigua, faticosa, che a momenti fa fatica a trovare il bandolo della matassa.
Lo si perdona comunque a Bent Hamer, regista scandinavo che è passato agilmente dalla piccola storia di caricatura quotidiana di Kitchen Stories - racconti di cucina, direttamente a Bukowski, riuscendo a cavarsela di fronte ad un tale maestro della letteratura in modo tutto sommato gradevole e sufficiente.
Ma poi, dopotutto, come diceva lo scrittore maledetto, in un film "ciò che conta davvero è come te la cavi a camminare sul fuoco".