Recensione Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e ancora Primavera (2003)

Kim Ki-duk parte da un universo isolato, chiuso in sé stesso ed autoreferenziale, per descrivere, con immagini di straordinaria forza e bellezza, il dolore ed i conflitti sempre presenti nell'animo umano.

Un ciclo doloroso e immutabile

Il ciclo delle stagioni segna quattro diversi momenti, dall'infanzia fino alla maturità, dell'esistenza di un monaco buddhista che vive, con la sola compagnia del suo maestro, in una capanna galleggiante posta su un lago in una sperduta regione di montagna. Quattro momenti che si completeranno in un quinto e ultimo, in cui l'eredità spirituale dell'uomo sarà tramandata ad un nuovo giovane discepolo, e in cui l'immutabile ciclo delle stagioni e dell'esistenza tornerà al suo punto di partenza.

Meditazione e pulsioni, ascetismo ed istinto, corruzione e purificazione, poesia e violenza: di queste dicotomie vive questo film, penultimo lavoro del regista sudcoreano Kim Ki-duk (è del 2004 il suo ultimo film, l'ancora inedito Samaria), autore violento e raffinato, conosciuto dal pubblico internazionale soprattutto grazie al circuito dei festival (principalmente quelli di Berlino e Venezia, che hanno ospitato gran parte dei suoi film), e da quello italiano in virtù dei passaggi televisivi, nella trasmissione Fuori Orario, delle sue due pellicole L'isola (1999) e Indirizzo sconosciuto (2001). Un film complesso, questo Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e ancora Primavera, profondamente calato nell'essenza di una dottrina, quella buddhista, che ha alla sua base il concetto di rimozione del dolore attraverso il distacco totale dalla vita mondana. E il dolore è ben presente, qui, sotto la forma del conflitto, presente nelle prime quattro fasi/stagioni dell'esistenza del monaco, tra la spinta dell'individuo verso l'esterno, verso la conoscenza e la vita terrena, con la soddisfazione dei bisogni del corpo ma anche la sofferenza, e la privazione della materialità, la meditazione, l'armonia di corpo e spirito attraverso il distacco dal mondo esterno. Un conflitto che carica di sotterranea tensione la quiete, apparentemente immobile e fissata nella stasi, della dimora dei due uomini, e che esplode in momenti di raggelante violenza, esibita ma presentata come conseguenza dell'imperfezione (da correggere) dell'essere umano, parte necessaria di un percorso che porta alla purificazione dell'individuo. Purificazione che arriva, definitiva, solo alla fine della quarta stagione, con la liberazione dal "fardello" che il protagonista portava nel suo cuore fin dalla prima fase della sua esistenza, e con la trasmissione della sua esperienza al nuovo discepolo: un passaggio che porterà il ritorno della primavera e segnerà il nuovo inizio dell'immutabile ciclo della vita.

Kim Ki-duk parte quindi da un universo isolato, chiuso in sé stesso ed autoreferenziale (come del resto aveva fatto nel precedente L'isola), per descrivere il dolore ed i conflitti sempre presenti nell'animo umano, esplicitando qui la spiritualità che gli deriva dalla sua formazione (il regista, in gioventù, era intenzionato a darsi alla predicazione) e facendone la risposta, la chiave che condurrà il protagonista alla liberazione dal dolore. Un universo narrato con immagini di straordinaria bellezza, che comunicano quiete e che, per contrasto, fanno stridere e rendono ancora più emotivamente duro il dramma destinato a consumarvisi. Un dramma che lascia lo spettatore attonito, ma anche stordito e meravigliato, consapevole di aver assistito a una visione di straordinaria coerenza formale e di contenuti: una visione che, per rigore e forza emotiva, testimonia e rende esplicita la presenza di un grande cineasta.

Movieplayer.it

4.0/5