Un bengalese nel Bel Paese
Arriva nei (pochi) cinema la seconda produzione della Myself, casa di produzione messa su dal regista Vittorio Moroni che poggia interamente su un'azionariato popolare, rendendo così i possessori delle quote veri e propri proprietari di un pezzetto del film e dei suoi introiti.
Così, a sorpresa, nasceva e veniva distribuito Tu devi essere il lupo, che divenne in breve un piccolo cult, arrivando a sommare più di 25.000 spettatori nelle sale e aggiudicandosi un posto tra i nominati ai David di Donatello e tra i Nastri d'Argento.
E' con queste premesse che Moroni porta sullo schermo il personaggio di Licu, per il quale ha cercato una produzione 'ufficiale' con scarsi esiti.
"Moretti non mi ha nemmeno ricevuto, con Luckyred non se ne è più fatto nulla. La Bim per un po' mi aveva illuso, ma poi è sfumata pure quella opportunità".
Così il regista è ripartito con la scommessa della Myself, che ha finanziato e prodotto interamente Le ferie di Licu.
Il film è in realtà un documentario, nato quasi per caso da un lavoro di indagine di Moroni su un soggetto che stava vagliando, che racconta uno spaccato di due anni e mezzo della vita di Licu, un bengalese emigrato in Italia in cerca di lavoro, incentrandosi sul mese di ferie che prende per tornare nel suo paese, in vista del matrimonio combinato per lui dalla famiglia.
La vita di Licu, e la pazienza e la bravura del regista di coglierne i momenti salienti, più coinvolgenti e descrittivi di una normalità ordinaria, offrono l'impressione di trovarci in un'opera di finzione, e il dubbio permane a lungo durante quello che è lo svolgimento di quello che sembra un vero e proprio plot pensato a tavolino.
In questa storia per molti aspetti avvincente di un faticoso ma gioioso ritorno a casa, si innesta una moltitudine di tematiche interessanti: il confronto tra culture di diversa origine, la condizione degli immigrati, la condizione della donna, il concetto di famiglia. Colpisce soprattutto osservare come l'istituto del 'matrimonio combinato' è talmente radicato negli usi e nelle tradizioni della cultura bengalese, che la reazione del protagonista mette in crisi con un semplice sguardo di gioia malcelata il cliché cinematografico del matrimonio combinato come aberrazione sociale (si faccia la tara su quel che comporta tale istituzione in un contesto socioculturale così diverso dal nostro).
Moroni ha il pregio di mantenersi a distanza dal suo protagonista, pur non perdendo in partecipazione e coinvolgimento, atteggiamento che alla lunga diventa in qualche modo il tallone d'achille del film. Fino a che gli avvenimenti nella vita di Licu scivolano via lietamente ci si limita a guardare quel che succede, a seguire il tutto come una normale storia di finzione. Alle prime difficoltà (come l'estrema gelosia che costringe la moglie a rinchiudersi in casa) emerge il lato reale della vicenda, e l'immedesimazione del pubblico sale, così come anche il senso di fastidio per l'assenza di giudizio della regia, che continua, imperterrita e asettica, a filmare.
Difetto etico sul quale si può comunque sorvolare, di fronte ad un'opera piccola ma non timida, che tenta - magari senza riuscirci - di fare del cinema diverso, di porre questioni, sociali e cinematografiche, rispetto alle quali spesso si hanno tante, troppe, remore.