Nel linguaggio comune la parola melodramma, nata per definire una rappresentazione scenica che utilizza il canto e la musica come modalità espressiva, ha assunto un'ampia pluralità semantica; nel cinema, in particolare, il melodramma è quel genere che, citando l'enciclopedia Treccani, "rappresenta l'espressione estrema" del dramma generico attraverso "l'esaltazione delle passioni primarie". Ma se il termine è tutt'oggi riconducibile sia all'opera lirica, sia all'arte cinematografica, in un'accezione più colloquiale il melodramma indica anche "tutto ciò che appare enfatico, esagerato, e quindi privo di autenticità".
Una linea sottilissima distingue il significato primario da quello deteriore: una linea oltrepassata, per tradizione, dal genere televisivo della soap opera. E il paradosso di un film quale Un amore così grande è che, se l'obiettivo principale e apprezzabile consisteva nel rendere omaggio al melodramma come genere operistico, e in particolare a Giacomo Puccini, il linguaggio adoperato dalla pellicola è mutuato invece dalle telenovele: non solo per quell'apoteosi di enfasi che sconfina, appunto, in una totale assenza di autenticità, ma per le soluzioni narrative e formali di un racconto che guarda a La bohème e a Romeo e Giulietta, ma somiglia piuttosto a Gli occhi del cuore.
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Con Il Volo, amore e musica a Verona
Un amore così grande è il primo lungometraggio cinematografico di Cristian De Mattheis, regista e sceneggiatore con un lungo curriculum per il piccolo schermo, la cui influenza si avverte inevitabilmente in quasi tutti gli aspetti del film: sia sul piano della messa in scena, imperniata su un'estetica dal taglio tipicamente televisivo, sia nella costruzione di situazioni e personaggi. Al cuore della trama vi è la figura di Vladimir, appena arrivato da San Pietroburgo, con zaino in spalla, a Verona, dove fervono i preparativi per un concerto de Il Volo (i membri del terzetto canoro aprono il film e recitano nel ruolo di loro stessi). Vladimir, giovanotto spiantato e apparentemente senza neppure un cambio d'abiti, bivacca nei pressi dell'Arena, alla ricerca di un misterioso liutaio che vorrebbe avvicinare; nel frattempo, la sua voce da tenore gli permette di farsi notare da un gruppo di musicisti di strada, da una ragazza di nome Veronica (che non tarda a sfoderare gli immancabili occhi dolci) e da un impresario deciso a metterlo sotto contratto.
Fin dalle prime battute, insomma, Un amore così grande imposta la narrazione su una serie di binari ben precisi: il confronto con il proprio passato, nell'ottica di un agognato ricongiungimento familiare; la storia d'amore, inserita però nella maniera più scontata possibile; un talento nascosto e in attesa di essere scoperto, favorito da una grande occasione (una collaborazione con Il Volo) piovuta dal cielo. Peccato solo che nella prima esibizione di Vladimir, sulle note di E lucevan le stelle, la voce del cantante Piero Mazzocchetti risulti visibilmente fuori sincrono rispetto al labiale dell'attore Giuseppe Maggio: e una scena già di per sé caricata all'eccesso, con il giovane tenore in lacrime fra passanti attoniti e commossi, anziché assestare un primo fendente emotivo produce un effetto goffamente straniante.
Se Romeo e Giulietta incontra Gli occhi del cuore...
Il maldestro lip sync si rivela comunque l'ultimo dei problemi di un film che, dopo questa svolta in stile Saranno famosi, deraglia completamente per finire nei territori della più blanda delle soap opere, fra dialoghi privi di credibilità, cliché drammaturgici a iosa e personaggi tagliati con l'accetta (uno per tutti, la perfida nonna impicciona e classista interpretata da Fioretta Mari). Ma a rendere Un amore così grande un prodotto pressoché irricevibile, in un contesto che non sia quello di una fiction per una rete generalista, non sono soltanto la scarsa spontaneità dei due protagonisti, Giuseppe Maggio (e le numerose sequenze di pianto non aiutano di certo) e l'esordiente Francesca Loy, la prevedibilità dell'intreccio e l'impiego - spesso ridicolo - de Il Volo come "grillo parlante" e deus ex machina (con annessa marchetta discografica reiterata a più non posso). Il maggiore e ineludibile difetto del film di De Mattheis risiede nel suo parossistico accumulo di "scene madri", nelle quali il presunto pathos si rovescia puntualmente in una bislacca parodia involontaria.
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Qualche esempio? Cercando di non rilasciare troppi spoiler, un debutto canoro rovinato quando al tenore stesso squilla il cellulare e lui pensa bene di rispondere (la sequenza in questione dovrebbe trasmettere angoscia e shock, ma l'esito è diametralmente opposto), ma soprattutto un finale talmente assurdo, forzato e privo di senso da trasformare qualunque pretesa di catarsi (ma no, non è proprio il caso) e di romanticismo in un happy ending semplicemente grottesco. E a ribadire come il modello di riferimento qui non sia certo il melodramma, ma la pessima televisione bersagliata da Boris, c'è una scena quanto mai emblematica: al culmine di un effetto-domino di catastrofi, un uomo si barrica all'interno di una stanza d'ospedale e, mentre gli agenti della sicurezza (incitati dalla perfida nonna di cui sopra) tentano di sfondare la porta, prova a risvegliare una paziente in coma facendo partire una registrazione del successo sanremese de Il Volo. Non vi anticipiamo l'esilarante conclusione di tale 'esperimento': vi basti sapere che neppure Mel Brooks avrebbe saputo fare di meglio...
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