Recensione A perdre la raison (2012)

E' impossibile non rimanere coinvolti dal film, non solo perché le vittime sono dei bambini, ma anche perché, da tutta la vicenda raccontata, è molto difficile individuare dei colpevoli.

Un abbraccio mortale

Mounir e Murielle appartengono a paesi diversi e culture diverse, hanno background molto diversi, ma si amano. Lei è una ragazza del ceto medio, lui un immigrato marocchino che è stato aiutato fin dal suo arrivo in Belgio da Pingent, un medico che l'ha cresciuto praticamente come un figlio. Quando i due decidono di sposarsi, la generosità di Pingent fa in modo che il medico accolga Mounir e Michelle nella sua spaziosa abitazione, divenendo una specie di nonno per i bambini che nel frattempo la coppia decide di far nascere. Nel corso degli anni, però, l'atteggiamento di Pingent, da generoso, si fa sempre più soffocante; il suo attaccamento per Mounir inizia a rivelare un che di morboso, mentre l'equilibrio psicologico di Murielle inizia pericolosamente a vacillare. La soluzione ideale, per la coppia, sarebbe liberarsi dal soffocante abbraccio dell'amico di famiglia, ma il proposito si rivelerà quasi impossibile da attuare.

Tra le pellicole presentate, in questa edizione 2012 del Festival di Cannes, nella sezione Un certain regard, questo A perdre la raison è tra quelle dal tema più problematico. Il dramma della coppia protagonista, ispirato a un fatto di cronaca nera avvenuto nel 2007, e dipanato nel film nel corso di anni, ricorda troppo da vicino alcuni tragici eventi a cui abbiamo assistito, anche in Italia, negli ultimi tempi; il coinvolgimento generato dalla storia non è dunque (tanto) merito del film, quanto di una realtà che tocca profondamente noi tutti, e da cui il regista Joachim LaFosse ha scelto di prendere spunto. E' impossibile non rimanere coinvolti, dunque, non solo perché le vittime sono dei bambini, ma anche perché, da tutta la vicenda raccontata, è molto difficile individuare dei colpevoli. Se i meriti del film sono in gran parte extra-cinematografici, quindi, va almeno dato atto alla sceneggiatura di aver narrato con un certo equilibrio una storia difficile, evitando di dare giudizi e presentando ogni personaggio con le sue (umanamente comprensibili) motivazioni. Non riusciamo ad attribuire delle colpe precise per i tragici eventi che il film racconta, che acquisiscono così il segno dell'ineluttabilità, di un dramma che sembra impossibile da evitare.
Nonostante ciò, il film di LaFosse non riesce tuttavia a liberarsi da una certa sensazione di freddezza, da una fatica nel suo sviluppo che non aiuta l'empatia. Se la messa in scena è giustamente minimale, e i toni ricattatori vengono quasi sempre evitati, bisogna sottolineare un certo squilibrio tra la prima parte del film, in cui la latente ossessione del medico viene lasciata in secondo piano, e il successivo precipitare degli eventi. Manca probabilmente, a una sceneggiatura comunque coraggiosa per i motivi sopra ricordati, una costruzione narrativa più armonica, che riesca a prendere per mano lo spettatore e a fargli penetrare le vicende di una famiglia dipanate nel corso di circa un decennio. Lo stile del film è, per larga parte della sua durata, eccessivamente piano, con qualche lungaggine di troppo e il mancato approfondimento del rapporto, che costituirà poi il fulcro della tragedia successiva, tra l'immigrato marocchino e il medico. Difetti strutturali, e soprattutto di scrittura, che impediscono di considerare A perdre la raison un film completamente riuscito, ma che non inficiano la capacità dell'opera di suscitare spunti di riflessione e una certa inquietudine, destinata ad accompagnare lo spettatore anche per molto tempo dopo l'uscita dalla sala.

Movieplayer.it

3.0/5