La psicanalisi oggetto di un thriller della mente. Transfert, opera prima del catanese Massimiliano Russo, è un film a incastri, un puzzle di sequenze che si compone, tassello dopo tassello, secondo associazioni misteriose. Il film, una produzione indipendente dal concept raffinato e originale, è immerso in un'atmosfera onirica. Sogno o realtà? In quale dimensione vive lo psicanalista Stefano Belfiore (Alberto Mica), giovane e brillante terapeuta che si impegna a far decollare il proprio studio accettando pazienti di ogni tipo? Dalle sorelle problematiche e borderline ai genitori di un undicenne con manie suicide, dall'uomo di mezza età che non crede nella psicanalisi a un misterioso giovane che sembra molto (troppo?) interessato al lavoro dello psicanalista tanto da spiarlo di nascosto.
Ciò che colpisce in Transfert è la capacità di Massimiliano Russo di trasformare le limitazioni tecniche dovute al budget in tratti distintivi. Le location ridotte in numero e la fotografia minimalista vanno a costituire il look di una pellicola ossessiva e claustrofobica, in cui ambienti e situazioni - le sedute psicanalitiche in primis - si ripetono con poche, ma significative varianti. La coazione, in psichiatria, è la tendenza all'ossessività. Il suo equivalente visivo sono i continui incontri di Stefano Belfiore con i suoi pazienti riproposti attraverso un montaggio secco e rapido. Accomodante e sicuro di sé, Stefano sembra intenzionato a portare avanti una missione più che un semplice lavoro, impressione confermata dai i flashback legati all'infanzia dello psicanalista segnata da una madre instabile con tendenze maniaco-depressive. Tanto è certo delle proprie capacità il giovane terapeuta da forzare le regole deontologiche, accettando come pazienti due sorelle nonostante gli avvertimenti del suo tutor.
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Freud non abita più qui
A differenza di tanti thriller a sfondo psicanalitico, Transfert non indaga sulle conseguenze della psicosi, ma esplora l'atto della psicoterapia, quel delicato momento in cui tra il paziente e il terapeuta si instaura una comunicazione verbale o non verbale. Quel patto di fiducia reciproca che rappresenta il primo passo in un percorso di guarigione diventa la chiave di volta per esplorare i meandri della psiche turbata dai problemi del quotidiano. Avulso dalla messa in scena delle psicosi plateali e sconvolgenti, Transfert si concentra piuttosto sui piccoli malesseri quotidiani che ci affliggono descrivendoli con un'inedita sottigliezza nella scrittura e una manciata di convincenti interpretazioni.
Dopo un incipit dominato da un'apparente staticità, man mano che la narrazione avanza ci rendiamo conto che il focus del film non sono i pazienti di Belfiore, ma il suo approccio nei confronti di coloro che varcano la porta del suo studio. Il film indaga le reazioni di Stefano di fronte ai loro input e, in un gioco di specchi, gioca col punto di vista aderendo al suo sguardo per poi distaccarsene, rimescolando le carte in tavola e gettando nel mucchio di ingredienti dettagli disturbanti che complicano la risoluzione del puzzle. La mente gioca strani scherzi. Quella che crediamo essere la realtà potrebbe rivelarsi solo un'illusione generata dall'inconscio per proteggerci dalla nostra condizione. Nei panni di Stefano, Alberto Mica sa essere convincente col suo fare suadente che oscilla tra personale simpatia e distacco professionale nei confronti dei pazienti. La solarità sfoderata dall'interprete nasconde delle crepe che emergeranno solo nella parte conclusiva del film, in cui si celano inattesi twist.
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Cinema e psicanalisi: istruzioni per l'uso
Il segreto del film è contenuto già nel titolo, Transfert, un rimescolamento percettivo di ricordi, pulsioni e sentimenti proiettati erroneamente sullo psicanalista. Con la sua performance, Alberto Mica riesce a gestire i vari transfert frutto dei percorsi terapeutici con i pazienti celando un mistero ben più grande. Il film disvela la sua anima a poco a poco, intrigandoci con un'atmosfera sottilmente morbosa per poi esplicitare, nella seconda parte, la sua natura di thriller. Al di là dei colpi di scena sapientemente orchestrati per mantenere alta l'attenzione anche di coloro che non sono attratti dai temi psicanalitici, in fin dei conti quella di fronte a cui ci troviamo non è altro che una maxi seduta in cui lo spettatore/paziente proietta turbe e ossessioni sul grande schermo. Quella poltrona immersa in una sala buia è da sempre il luogo del sogno, dell'immersione dell'inconscio e il massimo transfert possibile è quello che lega il pubblico alle immagini in cui si immedesima. Quale intuizione più acuta, per Massimiliano Russo, che esplicitare questo fenomeno imbrigliandolo nelle regole del genere?
Movieplayer.it
3.5/5