La realtà è stato fin dall'inizio il suo banco di prova e un primo amore che, ancora oggi, cerca di non tradire mai. Sarà per questo che Andrea Segre ha mosso i primi passi nel mondo del cinema utilizzando proprio il linguaggio documentaristico. Il piacere di conoscere e indagare ha caratterizzato il suo stile fin dal televisivo Berlino 1989-1990: il muro nella testa. A quel lavoro, però, ha fatto seguito un percorso registico particolarmente sensibile e attento alle tematiche delle migrazioni verso l'Europa da cui nascono Come un uomo sulla terra, A sud di Lampedusa, Il sangue verde e Mare chiuso. Un interesse questo che, oltre a rappresentare quasi una firma stilistica, lo ha portato a fondere la veridicità del documentario con la poetica del cinema di finzione. In questo modo le sue riflessioni sulla tematica dell'immigrazione diventano ancora più potenti e, raggiungendo una emotività mai stucchevole, conquista l'attenzione del pubblico e della critica. Un esempio evidente è il successo di Io sono Li che, dopo un lungo percorso festivaliero, riceve il Premio LUX 2012 del Parlamento Europeo. Oggi, ad un anno di distanza, Segre riprende il filo del discorso con La prima neve, presentato al Festival di Venezia e in sala dal 17 ottobre. Immerso nel silenzio solo apparente dei boschi del Trentino, il regista offre ai suoi personaggi, Dani profugo libanese e il giovanissimo Michele rimasto solo con la madre e il nonno dopo la morte del padre, la possibilità d'indagare sulle loro identità accomunati dall'universalità del dolore che non riconosce precisi luoghi d'appartenenza o definizioni sociali.
Integrazione sociale, paternità in crisi e la natura intatta del Trentino: qual è stata la sfida più grande da affrontare per la realizzazione de La prima neve? Andrea Segre: Sicuramente il clima. Poco prima delle riprese programmate per l'autunno, nella valle ha cominciato a circolare voce di una nevicata precoce. In un solo giorno ci siamo trovati con un paesaggio completamente bianco e diverso da quello che ci aspettavamo. Poi, andando a prendere un caffè nel bar del paese diventato praticamente il mio centro ufficiale di sostegno, in molti mi hanno rassicurato che entro due giorni si sarebbe sciolto tutto, lasciando spazio ai colori dell'autunno. Ed è stato esattamente così.
Perché ha scelto di girare il film proprio in Val dei Mocheni?Il motivo principale sono stati i miei due protagonisti, Dani e Michele, interpretati da Jean-Christophe Folly e Matteo Marchel. Il personaggio di Dani è ispirato a tutti i profughi africani libici che ho conosciuto in quelle valli dove sono stati prima trapiantati e poi abbandonati a loro stessi. Non tutti sanno che gran parte di loro arrivano da grandi centri urbani, quindi, trovandosi improvvisamente all'interno di una realtà decisamente più raccolta, subiscono un forte impatto. Ed ero interessato a raccontare proprio gli effetti destabilizzanti che nascono da questa contraddizione. Dall'altra parte, poi, avevo bisogno di un bambino capace di rappresentare la rabbia derivata dal dolore e che appartenesse profondamente ai luoghi in cui volevo girare. Desideravo trovare un ragazzino in grado di giocare nei boschi con modalità tradizionali. Non volevo ottenere un racconto moderno della natura, ma ritrovare la quotidianità del cortile di casa. A quel punto, in molti mi hanno consigliato di andare in Val di Mocheni, praticamente la valle meno turistica di tutto il Trentino. Li ho scovato Matteo, libero di muoversi e sperimentare l'ambiente in cui si trova come un terreno di avventure, senza che i suoi genitori intervengano con quell'iper protezione tutta cittadina, capace solo di togliere energia ai bambini.
Il giovane Matteo è indubbiamente un esperto di boschi ma non di cinema, non essendo un giovane attore professionista. Come è stato confrontarsi con lui nelle vesti di una madre? Anita Caprioli: Matteo è dotato di una sensibilità rara capace di fargli anticipare delle cose e di avere delle accortezze inaspettate nei nostri confronti. Facendo parte di quella realtà, ha portato nel film e nella nostra recitazione un elemento reale e autenticamente della valle. In questo modo tutto il lavoro di ricostruzione è stato facilitato, basandosi su un rapporto di veridicità. Perché lavorare con i bambini ti offre un gancio sulla verità che non appartiene a nessun altro.
Il film ha un ritmo e una atmosfera naturale. Quanto è stato rilevante utilizzare un ambiente esteticamente così forte e come ha influenzato la sua visione della storia? Andrea Segre: Per me, come persona e documentarista, la relazione con i luoghi è primaria. Ho cominciato la mia attività proprio per scoprire e conoscere posti nuovi. In questo caso, poi, la produzione ha abbracciato completamente la mia filosofia e, accantonando qualsiasi logica di marketing o sponsorizzazione, ha costruito per me e l'intero cast la possibilità di vivere quotidianamente e svegliarci immersi in quel paesaggio ambientale e sociale. La priorità era proprio che noi fossimo li e che ci lasciassimo ispirare fino in fondo. I boschi, in particolare, e anche il maso, sono luoghi che nel loro diverso modo di agire fisicamente influenzano narrativamente il film. In questo senso il territorio ha un ruolo di un attore indipendente che, fortunatamente, non riesco pienamente a controllare. E devo dire che la cosa non mi dispiace. Certo, per quanto è stato possibile, abbiamo studiato l'evoluzione dei diversi colori del bosco, però c'è sempre dell'inevitabile. Lo stesso possiamo dire per il luogo sociale che, come un personaggio aggiunto, ci ha restituito sfumature non previste.Dalla fase di scrittura alla realizzazione sul set avete apportato molte modifiche?
Il testo è sempre soggetto a cambiamenti. Molto influisce la preparazione con gli attori durante le prove, che rappresentano spesso un momento di riscrittura. Il cambiamento più evidente è stato apportato all'età del ragazzo. All'inizio doveva essere un adolescente di quattordici anni poi, però, abbiamo incontrato Matteo. Ci ha spiazzati con la sua capacità di rappresentare una rabbia autentica, quasi adulta. E' stato più potente di quanto ci potessimo aspettare.
Non si può fare un discorso generico su questo argomento, ma i tre ragazzi africani che hanno lavorato nel film, come altri della comunità, hanno sperimentato fenomeni di integrazione. Però in molti si sono trovati in difficoltà, almeno all'inizio. Non dimentichiamo che alcuni anni fa Maroni si è inventato un progetto per far fronte all'allarme profughi, affidando più di un miliardo di euro alla protezione civile. Naturalmente quei soldi sono stati mal gestiti e attribuiti, nel peggiore dei casi, a persone incapaci d'intervenire con professionalità. In molti casi non sono riusciti nemmeno a comunicare con le persone affidate, non conoscendo ne il francese ne l'inglese. Oltre questa realtà, in cui gli interesse economici hanno il sopravvento, esiste un mondo diverso. Una volta usciti dal campo e dal centro accoglienza, solitamente inizia una vita di veri contatti umani e sociali. Il segreto, dunque, è uscire dall'inscatolamento e della definizione stessa di profugo. Solo a quel punto inizia la vita.