Il luogo d'elezione del cinema è la sala. Un grande schermo, una platea e un pubblico. Ma ci sono film più adatti a riempire questo spazio, attrarre grandi masse di persone per proporre uno spettacolo, altri che invece giocano una partita diversa, che trovano il proprio personale cammino in ambiti diversi, più ristretti e di nicchia, più attenti, ed adatti, all'aspetto sperimentale del cinema in quanto espressione artistica. Festival e rassegne sono ovviamente i canali principali per venire in contatto con produzioni improntate sulla ricerca di nuovi linguaggi e nuovi modi di proporre una storia o un'idea, che raramente trovano la via per arrivare allo spettatore medio.
Esempio di quest'ultimo tipo di lavoro è Touch Me Not, il film d'esordio della rumena Adina Pintilie che al Festival di Berlino 2018 ha vinto sia il premio come miglior opera prima che l'Orso d'oro come miglior film della selezione ufficiale. Un film che però, a differenza di quanto detto per pellicole della sua natura, ha già trovato una distribuzione per l'Italia, acquistato da I Wonder che ne curerà la distribuzione nel corso dell'anno.
Una scelta coraggiosa per un film che la stampa presente a Berlino ha accolto con unanime rifiuto.
Intimità esplorata
Una reazione comprensibile per un film che sceglie la sua strada e la segue con sicurezza, a dispetto dell'inevitabile inesperienza di un esordio. Un film che decide di affrontare un tema difficile e delicato, che tratta senza tirarsi indietro nella scelta di cosa mostrare per poterlo approfondire: Touch me Not si concentra sulla sessualità, la sua scoperta e ciò che comporta, sugli aspetti soggettivi, personali dell'intimità, della scoperta del corpo e delle barriere che ognuno pone tra sé e gli altri, spostandosi tra disabilità, transgender e ogni sfumatura della sfera sessuale. Esplorando i modi in cui la gente può sperimentare l'intimità, vuole incoraggiare l'empatia e la comprensione del prossimo, senza etichettarlo come sbagliato solo perché diverso. Adina Pintilie racconta tutto ciò con una messa in scena curata ma algida, con uno stile molto ben definito, in cui predomina un bianco asettico, che si lascia andare ai dettagli e l'esplorazione dei corpi dei protagonisti.
L'ibrido di Adina Pintilie
La sua è un'attenzione per la messa in scena che sorprende ancora di più se si considera la natura ibrida di Touch me Not, che segue un processo produttivo di un documentario, pur non essendolo: su una struttura predefinita, infatti, la regista ha costruito il film insieme ed intorno ai suoi tre protagonisti (Laura Benson, Christian Bayerlein e Tómas Lemarquis, il Calibano di X-Men: Apocalisse), girando e montando, per poi fermarsi e tornare alla fase di scrittura per approfondire ed elaborare ciò che è emerso prima di tornare sul set. Un progetto che ha richiesto tempo, alcuni anni di lavorazione dalla concezione in avanti, oltre a tanto coraggio da parte delle figure che vi hanno preso parte, disposte ad indagare la propria, personale e unica, intimità, mettendola a nudo.
Oltre i confini del cinema
In questo confine indefinito e fluido tra documentario e finzione, Touch Me Not si perde e fallisce nel suo intento di invitare al dialogo su un argomento delicato, perché pone lo spettatore al cospetto di un'intensità che finisce per respingerlo e il risultato è un lavoro col quale è difficile entrare in sintonia, proprio al contrario del suo intento. Ma nell'allinearci a chi non l'ha trovato riuscito, ci sentiamo ugualmente di individuare dei motivi di interesse: così come incoraggia ad esplorare i confini della sessualità, il film della Pintilie, pone una analoga riflessione su quelli del linguaggio cinematografico, cercando di creare qualcosa di nuovo e diverso, di andare in una direzione personale e trovare una propria identità. È una spinta verso la sperimentazione sicuramente apprezzabile ed è forse la stessa motivazione trovata dalla giuria di Berlino 2018 nell'assegnarle il doppio premio come opera prima e Orso d'oro. Ma è una scelta che riteniamo comunque eccessiva.