Non c'è passato, non c'è presente, non c'è futuro. Il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento.
È alle parole del fisico Carlo Rovelli che Cristina Comencini affida l'incipit del suo nuovo film, dichiarando sin dall'inizio la materia della narrazione: il tempo. Come leggerete nella recensione di Tornare, (presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e dal 4 maggio disponibile on demand su Sky Primafila Premiere, Timvision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital, Rakuten TV) il racconto si struttura attorno alla dimensione della temporalità sospesa e frammentata della memoria, uno spazio straniante, quasi lynchiano, in cui presente e passato convivono vicini e nello stesso tempo giustapposti. Se ne stanno l'uno accanto all'altro, in attesa che lo spettatore ne ricostruisca il senso insieme alla protagonista. Un thriller dell'inconscio, come lo ha definito la regista stessa, "il suo film più libero" che quindici anni dopo La bestia nel cuore la riunisce a Giovanna Mezzogiorno, in un'ideale continuità di tematiche e suggestioni.
Un film stratificato, evocativo, forse fin troppo intriso di simbolismi: è infatti nella spasmodica e insistita ricerca di metafore, che Tornare rivela le sue più grosse debolezze.
Una trama tra thriller e favola
Tornare è un film sulla riconciliazione con i padri, sulla liberazione e la ridefinizione di sé, ma è prima di tutto la storia di una femminilità mortificata, repressa e forse alla fine riconquistata. È il viaggio di Alice (Giovanna Mezzogiorno) nella Napoli degli anni Novanta. Dopo una lunga assenza, la morte del padre l'ha portata a rientrare dall'America nella casa di famiglia, ormai disabitata. Con la sorella (Barbara Ronchi) hanno deciso di venderla, e toccherà a lei il compito ingrato e per certi versi salvifico, di svuotarla degli oggetti di una vita. Lì si ritroverà a dialogare a tu per tu con la se stessa adolescente (Beatrice Grannò), rimasta prigioniera nella casa paterna. A guidarla nella ricomposizione dei pezzi del puzzle, anche il legame con Marc (Vincenzo Amato), presenza affascinante e misteriosa incontrata ai funerali del padre. Per Alice inizierà un viaggio a ritroso nel passato...
Cristina Comencini sviluppa il racconto affidandosi ad una struttura a matrioska e alla potenza evocativa dei luoghi: l'enorme casa vuota a picco sul mare, gli oggetti che la abitano, le porte spalancate, gli angoli remoti che resuscitano pezzi di memoria rimossa. E poi c'è la Napoli nascosta, sotterranea, misteriosa, rappresentata dalla grotta che tante volte ha fatto da rifugio ad Alice da piccola. Gli spazi, definiti da un tempo sfilacciato e vagabondo, e ripuliti di qualsiasi riferimento realistico, diventano insieme ai rumori la parte più suggestiva della narrazione, occupano la scena e ne diventano i protagonisti.
Riemergono temi cari alla regista: l'indagine dell'inconscio, i rapporti umani, il trauma, lo strappo che si consuma tra le mura domestiche, la casa come luogo del ritorno, il recupero doloroso dei ricordi, la femminilità che si riprende gli spazi che le spettano. Il thriller cede spesso il passo alla favola, riecheggiata dalla figura della Alice bambina, "l'unica che non si fa fregare", perché "non è una principessa".
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Giovanna Mezzogiorno, l'Alice perduta
Peccato che l'uso ridondante di rimandi simbolici appesantisca il film, che annega spesso nel didascalismo e in una narrazione forzata: le intenzioni in questo caso risultano migliori della realizzazione. Anche la recitazione finisce per risentire di una sceneggiatura sovraccarica di simbolismi, nonostante gli attori facciano del loro meglio. Giovanna Mezzogiorno si carica addosso dolori e parole e lo fa appellandosi per quanto possibile alla forza dello sguardo e alla rarefazione dei gesti, riempiendo gli spazi con il corpo di Alice violato dal passato, nascosto sotto un presente che ne ha inghiottito qualsiasi accenno di femminilità. A Beatrice Grannò nei panni dell'Alice diciottenne tocca invece portare una ventata di freschezza: è l'irruenza della sessualità libera da sovrastrutture machiste, è l'immagine della libertà perduta e sepolta sotto le macerie di quella casa vuota, è il simulacro degli anni '60, simbolo dell'emancipazione delle donne. Ribelle e anarchica, come dovrebbe essere il femminile in ogni sua declinazione.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Tornare con la consapevolezza di trovarci davanti a un'opera stratificata e ricca di tematiche, ma affettata e forzata nella sua realizzazione. Un film fortemente evocativo e forse fin troppo intriso di simbolismi: è infatti nella spasmodica e insistita ricerca di metafore, che rivela le sue più grosse debolezze. Rimangono le suggestioni e i rimandi alla favola di una femminilità riconquistata.
Perché ci piace
- La Napoli sotterranea, misteriosa e nascosta.
- I rumori che insieme ai fantasmi protagonisti abitano l'enorme casa d'infanzia .
- La scelta di trattare la femminilità violata attraverso i toni di un thriller dell'inconscio.
Cosa non va
- La scrittura affettata e didascalica appesantisce la struttura a matrioska del film.
- Anche la recitazione risente del didascalismo e di un sovraccarico di rimandi metaforici.