Tutti conoscono Bruce Lee, la sua ascesa alla fama, la sua consacrazione internazionale, fino alla tragedia della sua prematura morte. Molti conoscono anche la figura del suo maestro, Ip Man, già rievocata da diversi lungometraggi. Ma se Wong Kar-wai ha deciso di incentrarvi la sua ultima fatica (e di fatica si può parlare a ragion veduta, considerati i numerosi anni di lavorazione e l'ingente numero di rimaneggiamenti che The Grandmaster ha dovuto affrontare), e il Festival di Berlino lo ha scelto come protagonista del suo film di apertura, un motivo ci sarà. Ip Man ha vissuto un momento cruciale nella storia della Cina: la guerra civile tra Nord e Sud, l'invasione giapponese, l'influenza britannica. Nonostante questi stravolgimenti, ha saputo mantenere la propria integrità, di uomo prima che di combattente, attraverso anche un incontro che, come spesso accade nelle opere dell'autore cinese, è in grado di imprimere una direzione dalla quale il ritorno è impossibile, ma la cui metà rimane comunque inarrivabile. In questo caso è quello con Gong Er, figlia di quel Maestro che, sconfitto da Ip Man, ne consacra l'arte: ella stessa combattente magistrale, rappresenterà un'alternativa non meno coraggiosa di quella scelta dal protagonista per impostare e interpretare la propria vita. In conferenza stampa, nella quale sono intervenuti, oltre al regista, i due protagonisti Tony Leung Chiu Wai e Zhang Ziyi e il direttore della fotografia Philippe Le Sourd, abbiamo ripercorso gli intenti di questo film, dal percorso tanto sofferto, ma forte di una profondità e di una poesia visiva in grado di non far rimpiangere l'attesa.
Come è nata l'idea di questo film, che ha avuto una vicenda produttiva così travagliata?Wong Kar-wai: La prima idea è nata nel 1999, quando ho visto un film, che in effetti era un documentario, girato dallo stesso Bruce Lee. Quella testimonianza, girata tre giorni prima della morte del suo maestro, Ip Man, era una dimostrazione di tecnica nelle arte marziali, da parte di una persona anziana, malata e debole. Si vede questo uomo ormai più che settantenne, in pigiama, attorniato dai propri nipoti, che quasi alla fine della ripresa si ferma, e noi non vediamo che espressione abbia, ma sappiamo che è agonizzante: forse cerca di tenere duro, o forse si è completamente dimenticato ciò che sta facendo. E' quel momento che mi ha fatto capire che dietro la percezione che le persone hanno delle arti marziali c'è qualcosa di molto più profondo. Questa testimonianza è importantissima, se si pensa che i suoi stessi allievi, per primo Bruce Lee, offrivano a Ip Man forti somme di denaro per avere una dimostrazione privata delle sue tecniche. Eppure lui ha sempre rifiutato, perché pensava che la propria abilità non dovesse essere appannaggio di una persona sola. C'è una profonda differenza tra l'essere un buon combattente e l'essere un buon maestro: un maestro deve avere la generosità e il senso di responsabilità adatti a trasmettere tutte le proprie tecniche. Tanti dicono che questo sia il mio primo film sul kung fu, ma in realtà è molto più di questo: ho cercato di dire più di quanto non dicessero le abilità di combattente di Ip Man, di parlare dell'intero mondo delle arti marziali, dell'onore, della filosofia che vi sta dietro, di scrivere un nuovo capitolo sulla percezione che il mondo ne ha.
Lei è praticamente idolatrato dai suoi connazionali cinesi, come dimostrano dei ragazzi che ho avuto come allievi. Come lavora con i propri attori una persona a cui ci si approccia con un così grande rispetto?
Wong Kar-wai: Lei è molto fortunata, perché i suoi alunni sono molto rispettosi! [ride]
Philippe Le Sourd: E' una persona molto generosa, che tende a condividere ogni momento della lavorazione: si procede passo passo, ci si segue a vicenda, tutti danno il proprio contributo al film, si procede insieme per tutto il cammino.
Tony Leung Chiu Wai: E' stato molto frustrante lavorare a questo film, e lo considero un complimento! Il mio lavoro con Wong Kar-wai è sempre stato un viaggio avventuroso, ma mi ritengo fortunato perché stavolta ho potuto interpretare un personaggio reale, e per questo è stata la collaborazione che, tra le nostre, mi sono goduto di più. Non che non siano state bellissime anche le altre, ma qui sapevo chi ero, e, lo ribadisco, è un complimento. Noi non abbiamo mai visto lo script prima dell'inizio di un lavoro, e non sapere chi si è, che cosa farà il tuo personaggio, quali atteggiamenti avrà, è molto difficile. In più ho dovuto allenarmi nel kung fu per quattro anni, ma ne è valsa assolutamente la pena, perché ho potuto lavorare a stretto contatto con tante persone di talento.
Zhang Ziyi: Io invece non avevo la minima idea di chi fosse il mio personaggio, ma mi ritengo molto fortunata per ciò che ho imparato recitando in questo film. Ci sono voluti venti mesi per completare le riprese, ma se me lo richiedessero ora lo rifarei, è stato un grandissimo momento.
Wong Kar-wai: Per me la sfida principale era rappresentata dalla mia ignoranza sul mondo delle arti marziali. In questo viaggio sono rimasto assolutamente meravigliato dalla vera natura di queste discipline. Molto spesso i maestri vengono considerati dei semplici combattenti, o persone che praticano uno sport come potrebbe essere lo yoga. La loro vera modestia sta in questo: le arti marziali sono, nel senso più classico del termine, un'arma, di difesa, ma che può anche uccidere. E loro hanno quest'arma nelle proprie mani: è questo aspetto, sconosciuto ai più, che ho voluto mostrare al pubblico. Quel bambino che guarda Ip Man da una finestra, con curiosità e ammirazione, avrei potuto essere io, come uomo e come regista, all'inizio delle riprese ma anche adesso, perché ci sono ancora talmente tanti livelli da esplorare in quest'arte.
Tony Leung Chiu Wai: La sfida più importante per me è stata quella di dover interpretare un Maestro: non credo che ci siano ritratti di personaggi più difficili da realizzare di questo. Io non sapevo nulla del kung fu, e durante la lavorazione ho capito come non si tratti soltanto di un atto fisico, ma sia una sorta di addestramento mentale, di modo di vivere. Il suo spirito non può essere imparato dai libri, per quanto mi sia documentato moltissimo, ma bisogna mantenere la mente sgombra da emozioni e da desideri, e io mi sono allenato per quattro anni a farlo. E' importante studiare la teoria, ma la vera direzione a cui il kung fu ti può condurre la si può comprendere solo attraverso l'allenamento. E iniziare a praticare il kung fu a quarantasei anni è senz'altro una bella sfida.
Zhang Ziyi: Non potrei essere più d'accordo.
Philippe Le Sourd: Per me si è trattato di una scoperta eccezionale. Ci siamo documentati tantissimo, ma abbiamo comunque dovuto studiare ogni singolo movimento, ogni singola situazione. Tutti, insieme, abbiamo scoperto qualcosa di nuovo giorno dopo giorno, tanto che io non considero questo semplicemente un film, quanto un viaggio.
Wong Kar-wai: Il film si chiude con una citazione di Bruce Lee, che esprime come un'arte marziale non sia solo un insieme di tecniche, o una scelta tra di esse, ma è una cosa che si deve vivere. Non ha importanza quante informazioni si possano raccogliere sull'argomento, solo attraverso la pratica la potrai capire.
In quanto presidente di giuria, avrà notato che molti dei film di quest'anno, in un modo o nell'altro, trattano della crisi. Secondo lei si tratta di un caso, o questa selezione è il riflesso di un problema più ampio?
Wong Kar-wai: Noi registi traiamo ispirazione innanzi tutto dalla vita e, anche se ci sono tanti filoni differenti al festival, è indubbio che ogni autore abbia voluto parlare di storie vicine alla propria realtà: è sicuramente qualcosa su cui dovremmo riflettere.
Secondo lei qual è il ruolo di un regista? Semplicemente quello di raccontare una storia o anche quello di insegnare qualcosa?
Wong Kar-wai: Il cinema ha diversi scopi: per qualcuno può essere l'intrattenimento, per altri l'esprimere se stessi. Forse il miglior esempio che mi viene in mente è questo: durante la première stampa, in Cina, uno dei miei sceneggiatori, che non aveva mai visto il film in presenza di un pubblico, si è "infiltrato" in sala. Dopo la proiezione io ho notato quanto si fosse emozionato: lui è una persona molto riservata, ma dopo quell'esperienza ha sentito la necessità di parlare del film con un amico che non vedeva da tanto tempo. Il cinema ci permette di esprimere qualcosa che sentiamo meritevole di essere condiviso: è per questo che abbiamo bisogno di un pubblico, sia che vogliamo lanciare un messaggio, che nel caso in cui si tratti di semplice intrattenimento.
Wong Kar-wai: Non credo che la provenienza del cast sia rilevante. Che vengano da Hollywood o dalla Cina, l'importante è che gli attori siano quelli appropriati al film. In questo caso, dovevano essere ben più di star del kung fu, dovevano essere dei grandi attori.
Diversi degli attori che hanno lavorato con Wong Kar-wai hanno dichiarato di essere migliorati tantissimo sotto la sua direzione. Voi cosa avete guadagnato da questa esperienza?
Tony Leung Chiu Wai: Il tempo passato a lavorare insieme è stato speciale: ho potuto interpretare un personaggio reale, imparare il kung fu, ma soprattutto Wong Kar-wai mi ha ispirato non soltanto come attore, ma anche in ambito personale, per il mio stile di vita. Finora, non avevo mai capito il kung fu come lo capisco adesso, ed è stato un processo importantissimo, che mi ha trasformato in una persona disciplinata.
Zhang Ziyi: Le parole non possono esprimere quanto sono cresciuta grazie a questa esperienza, il film stesso fa vedere tutto ciò che c'è da vedere.
Qual è il reale significato dell'arte marziale, e della figura di Bruce Lee, per la Cina?
Wong Kar-wai: L'audience internazionale ha seguito la vicenda di Bruce Lee, portandolo a diventare tanto popolare da essere un'icona. Ma, prima ancora, sono diversi i motivi che hanno portato il suo maestro a essere ciò che era. Innanzi tutto, se pensiamo alla sua vita, ci rendiamo conto che ha attraversato un momento storico travagliatissimo: la fine della dinastia Qing, la repubblica, la guerra civile, il colonialismo britannico a Hong Kong. Ed ha dimostrato come un vero Maestro si comporta di fronte a tutto questo, ovvero non rinunciando mai ai propri principi. E poi, pensiamo al Wing Chun, che ha portato dall'essere una disciplina inaccessibile a molti, perché costosa, a un tesoro per l'intera comunità. L'arte marziale è l'espressione di un artista marziale, le cui qualità devono essere la disciplina, la sicurezza in se stesso, la generosità di saper condividere tecnica ed esperienza. Questo è parte della nostra cultura, ed è quello che ho voluto presentare al pubblico.
Wong Kar-wai: Perché no? E poi, persino per un cinese potrebbero non essere evidenti tutti i significati che ho voluto imprimere al film: si parla della famiglia, dell'onore, di ciò a cui è giusto credere, e penso che l'audience internazionale sia in grado di condividere queste riflessioni, se è abbastanza curiosa. La gente spesso crede che noi registi forniamo risposte, ma questo non è necessariamente vero, e penso che possa venire a patti con questa realtà.
Le donne combattono in maniera differente rispetto agli uomini, sullo schermo e nella vita?
Zhang Ziyi: Sullo schermo, no. Nella vita, può darsi: noi donne abbiamo una generosità che spesso gli uomini non hanno e non ci riconoscono.