Quello di Carlo Shalom Hintermann è un documentario raro, diremmo persino unico nel suo genere. L'idea di base nasce infatti direttamente dal soggetto affrontato: la Xeroderma Pigmentosum, una rarissima malattia che rende potenzialmente mortale l'esposizione ai raggi solari (le probabilità di tumore della pelle aumentano di mille volte rispetto a quelle dei soggetti sani) e costringe a una perenne vita notturna. L'aspettativa di vita è molto breve, e i soggetti malati necessitano di un'assistenza pressoché continua, oltre che di un ambiente di vita rigorosamente e attentamente studiato (anche l'illuminazione elettrica, per non provocare danni, deve rispondere a precisi e rigorosi requisiti).
Il regista italiano è andato direttamente a Camp Sundown, campo estivo sito nello stato di New York ed unica struttura al mondo a trattare in modo sistematico la malattia, nata della tenacia dei genitori di alcuni bambini malati: qui, il giorno e la notte sono invertiti, e i piccoli ospiti godono di un sostegno che non è solo medico, ma anche e soprattutto di attenzione, ascolto e interazione quotidiana. L'idea peculiare di The Dark Side of the Sun è stata quella di coinvolgere direttamente i bambini nel processo creativo del film, inserendo una parte animata nata direttamente dalla loro fantasia: il loro universo, che vede il buio come fonte di sicurezza e protezione, viene poeticamente trasfigurato, con un'estetica che è persino debitrice ai lavori dei maestri dell'animazione nipponica, in primis Hayao Miyazaki. Del film, già presentato in molti festival internazionali (incluso, nel 2011, il Festival del Film di Roma) e ora in uscita in sala, ha parlato il regista insieme al direttore del doppiaggio Rodolfo Bianchi e al doppiatore Pino Insegno, oltre al direttore dell'animazione Lorenzo Ceccotti, al produttore Gerardo Panichi, e agli esponenti del mondo scientifico Domenica Taruscio (direttrice del Centro Nazionale Malattie Rare) e Velia Maria Lapadula (presidente dell'Associazione Sclerosi Tuberosa).
Dare voce al buio
"Quello che abbiamo cercato di fare noi, nell'affrontare il doppiaggio di un'opera così particolare, è stato accompagnare senza disturbare", ha spiegato Rodolfo Bianchi. "Per il rispetto che abbiamo per il tema e per i protagonisti, abbiamo pensato che l'ideale fosse non sovrapporsi e lasciar parlare l'animazione". Gli ha fatto eco, approfondendo il discorso, Pino Insegno: "Abbiamo cercato di lavorare con delicatezza, rispettando i piccoli protagonisti e le loro storie. Il nostro è un lavoro difficile, e viene spesso criticato, ma sono posizioni superficiali: il doppiaggio è una traduzione, e può essere buona o cattiva. Io, personalmente, lavoro solo se c'è passione ed empatia: e qui di passione ce n'era veramente tanta. Io avevo conosciuto, molti anni fa, il padre di Carlo (l'attore Carlo Hintermann, ndr) e già lì si era accesa una fiammella: successivamente, quando ho incontrato Carlo ed ho visto il suo lavoro, quella fiammella è diventata un incendio. Penso che questo film sia importante anche perché mostra che è la vicinanza quotidiana quella che davvero serve alle persone che stanno male: e questa si raggiunge giorno dopo giorno, non solo a Natale. Se c'è un modo per far sentire una persona sola, è andarla a trovare a Natale, e poi dimenticarsene. Un po' come le star del calcio che vanno a trovare i bimbi malati di leucemia, si fanno una foto con loro, offrono materiale per un articolo sul quotidiano di turno, e poi tornano al loro mondo. Queste cose provocano imbarazzo e aumentano la solitudine. La vicinanza quotidiana, invece, è quella che migliora davvero la vita delle persone, creando familiarità e quindi speranza".
Dentro al regno dell'oscurità
"Io ero effettivamente un po' spaventato dall'operazione di traduzione", ha ammesso Hintermann, "ma, una volta incontrato Rodolfo, è scattata la magia. Il suo lavoro l'avevo sempre visto da semplice spettatore, e il suo approccio è proprio quello di cui ha parlato: tradurre e non sovrapporsi al film. L'ha adottato anche qui." Il regista è poi passato ad esaminare gli aspetti più direttamente legati alla realizzazione del film: "Abbiamo girato a Camp Sundown per tre anni, facendo dei workshop in cui a girare erano gli stessi bambini. Quei workshop sono stati l'elemento da cui è partita l'animazione, e poi tutto il resto del film. Gli stessi bambini dovevano rappresentare quell'universo; quando abbiamo annunciato che avremmo realizzato una parte animata, si è scatenato l'inferno: ognuno voleva portare il suo contributo. La narrazione è una cosa che per eccellenza appartiene ai bambini e agli adolescenti: proprio relazionarsi con loro ha significato trovare la chiave di volta per tutto il lavoro. La parte animata, col tempo, diventava sempre più voluminosa. Il tipico elemento fiabesco è rovesciato, visto che la notte non è più un momento di insicurezza e paura. Una bambina, poi, ha introdotto la figura del tasso, che porta l'oscurità da una parte all'altra del mondo: aveva una grande fascinazione per quell'animale, e ha dato questo contributo alla storia. Nel complesso, i bambini hanno tratteggiato quasi una cosmogonia. C'è stato inoltre un gran lavoro sulle luci, visto che la malattia non permette di usare luci normali. È stato fatto un lavoro molto complesso, di cui devo ringraziare il direttore della fotografia, Giancarlo Leggeri. Anche il lavoro sulla musica, opera di Federico Pascucci, è stato complesso e molto 'di concetto'. Una cosa che assolutamente non ho voluto, sono state le interferenze esterne: sono stato anche avvicinato da un esponente della BBC che voleva comprare la sceneggiatura, mi ha detto che avrebbero pensato loro al film perché sapevano qual era il taglio giusto per interessare il pubblico. Ho detto subito di no. Abbiamo rifiutato categoricamente qualsiasi interferenza che potesse compromettere il lavoro dei bambini."
Animare la notte
Il direttore dell'animazione Lorenzo Ceccotti ha spiegato così il suo contributo al film: "Io non sono mai stato a Camp Sundown: è stato Carlo a portarmi, da lì, una serie di informazioni impressionanti, basate soprattutto sugli stimoli dei bambini stessi. È complesso da spiegare, ma la loro visione è completamente rovesciata, le informazioni sono ribaltate: un bambino sano, per esempio, se deve fare un disegno disegna una classica casetta col sole, ma per i piccoli ospiti di Camp Sundown un disegno del genere ha una valenza completamente opposta. Loro, invece, disegnerebbero le stelle e gli animali della notte. Partendo da questi concetti, abbiamo potuto comporre una vera e propria epica al rovescio. È così che è stato risolto gran parte del lavoro di creatività. Lo ammetto: dire che è stato un lavoro facile e in discesa è dire poco. Oltre a essere stato, soprattutto, un lavoro emozionante." "Siamo stati felici ed emozionati", ha chiosato il regista, "quando la tv giapponese, che ha contribuito a finanziare il film, ha voluto realizzare uno speciale sul nostro lavoro. Non avevamo neanche un vero e proprio studio, abbiamo dovuto appendere un cartello sulla porta della stanza in cui lavoravamo... in diretta nazionale, sono stato persino definito il Totoro italiano!" Il produttore Gerardo Panichi ha invece affrontato il tema delle difficoltà produttive che, da sempre, accompagnano operazioni come questa: "È stato abbastanza complicato e faticoso: io da sempre mi occupo di produrre documentari, o meglio, cinema 'del reale', ma operazioni del genere trovano scarsissimo sostegno. Nonostante questo, però, tutto il processo produttivo è stato costellato da incontri fantastici".
Cinema e scienza
Alla domanda se un film come questo possa aumentare la consapevolezza del pubblico riguardo a malattie rare, come quella in oggetto, la dottoressa Domenica Taruscio ha dato una risposta elaborata: "Noi studiamo i pazienti e le persone con certe patologie dal punto di vista biologico, e non solo. Il nostro è un istituto di ricerca che ha un centro di malattie rare, spinto dai bisogni dei pazienti. Sono bisogni innanzitutto di visibilità, visto che questa è solo una delle 7000 patologie di cui ci occupiamo. Nonostante tanti anni dietro ai microscopi, per molte di esse non esiste, al momento, una cura risolutiva. Noi continuiamo a studiarle perché siamo medici, però molto si può fare anche prevenendole; per far questo, è necessario intervenire innanzitutto sull'ambiente. Ci siamo avvicinati inoltre a quella che è definita medicina 'narrativa', ovvero fondata sulla narrazione di storie; abbiamo appena finito un congresso su questo tipo di terapia. Si tratta di integrare la medicina scientifica, quella basata sulle prove di efficacia, con una medicina che si basa invece sulle narrazioni; che è fatta, cioè, attraverso il cinema, la poesia e i racconti. Ciò aiuta a creare relazioni tra le persone, tra il paziente e il proprio team di cura. Unire queste due facce della medicina è importante e non scontato." "Abbiamo una straordinaria rappresentanza sociale", ha aggiunto l'altro medico presente, la dottoressa Velia Maria Lapadula, "ma questo approccio narrativo ha riscontrato anche diverse resistenze. Con Carlo, invece, ci siamo visti anni fa, ci ha parlato del film e ci ha raccontato le difficoltà che ha avuto per avere i finanziamenti. Le malattie rare hanno bisogno innanzitutto di speranza, e in questo film ce n'è tanta. La federazione di cui mi occupo ha 15 anni: la prima legge sulle malattie rare è datata 2001, ma attualmente stiamo aspettando una norma quadro organica".