Recensione Bubble (2005)

Bubble racconta di solitudine ed emarginazione, dell'instabilità mentale da esse alimentata, che cova dentro di noi e che si scatena a volte, per via di banalissimi detonatori esistenziali.

The dark side of America

Di Bubble, fin dalla sua presentazione al festival di Venezia del 2005, si è fatto un gran parlare più per via delle sua peculiarità produttivo-distibutive che per la sua natura filmica. Pur concordando con i motivi d'interesse che possono derivare dalle scelte di Soderbergh riguardo le modalità di distribuzione - il film è il primo di sette girati in digitale che usciranno negli USA contemporaneamente in sala, in DVD e in tv via cavo - sarebbe davvero un gran peccato che le discussioni su Bubble si limitassero a questo. Perché si tratta di un film di notevole fattura e interesse, che dimostra come Steven Soderbergh sia uomo di cinema attento e intelligente, in grado di giostrarsi tra i più diversi registri del cinema americano: dai blockbuster manifesto dello star system hollywoodiano come i vari Ocean's..., a produzioni che, come questa, richiamano stili tra i migliori del cinema indipendente americano contemporaneo.

Bubble racconta di solitudine ed emarginazione, dell'instabilità mentale da esse alimentata, che cova dentro di noi e che si scatena a volte, trasformandosi in vera follia, per via di banalissimi detonatori esistenziali; ma è anche uno spaccato di quell'America che viene di solito rimossa ma che è maggioritaria, dark side delle grandi metropoli e dello star system di cui sopra. Il tutto messo in scena con uno stile asciutto, geometrico ma taglientissimo, supportato da un cast di attori non professionisti ed esordienti che mangerebbe in testa a tanti nomi noti, americani e non. Se c'è una sorta di trama gialla nel film (un omicidio e le indagini che ne conseguono), questa è funzionale solo ad un ulteriore approfondimento dei personaggi e delle loro psicologie, delle loro vite routinarie e vuote, delle debolezze e delle piccole gioie che fanno la vita di tutti noi.

Senza voler togliere meriti al suo regista, va però evidenziato come Bubble, per temi e stile, sia evidentemente fratello (o cugino) del cinema di un importatane filmmaker statunitense, purtroppo sconosciuto ai più in Italia, come Lodge H. Kerrigan, omaggiato di una retrospettiva all'ultimo Torino Film Festival. E non appare quindi un caso che gli ultimi due film di Kerrigan (uno purtroppo mai visto da nessuno per via del danneggiamento irreversibile di tutti i negativi dopo le riprese; l'altro, Keane, visto allo scorso Festival di Cannes) abbiano visto proprio Soderbergh collaborare come produttore. E non ci importa se qualcuno per questo accuserà il film di Soderbergh di essere eccessivamente derivativo, anzi. Quello di Bubble, così come quello di Kerrigan, è cinema necessario per il senso di smarrimento e d'inquietudine che fa penetrare sottopelle, per il suo essere problematico e challenging nei confronti dello spettatore.
Chi vedrà e apprezzerà questo film, è quindi avvertito su quale sia il passo successivo da compiere.