Recensione Returner (2002)

Sospeso tra la science fiction di Terminator (richiamato fin dallo spunto iniziale), quella di Matrix e quella spielberghiana, arriva dal Giappone un ibrido godibile dal punto di vista dell'intrattenimento, ma sostanzialmente mancante di spessore.

Terminator incontra E.T. in una Matrix giapponese

Durante uno dei suoi "lavori", il killer Miyamoto ferisce per sbaglio una ragazza, misteriosamente trovatasi sul luogo dello scontro a fuoco. L'uomo soccorre la giovane, che al suo risveglio gli racconta una storia incredibile: la ragazza sarebbe giunta da un futuro in cui gli uomini sono in guerra con un'evolutissima razza aliena, e avrebbe il compito di uccidere l'essere che ha dato inizio all'invasione prima che questi possa scatenare la guerra. Miyamoto inizialmente non crede alle parole della giovane, ma alcuni misteriosi eventi, tra cui l'esplosione di un laboratorio chimico in cui sembra essere coinvolto un suo vecchio nemico, lo convincono a seguirla nei suoi propositi.

Datato 2002, e diretto dal regista Takashi Yamazaki qui alla sua seconda regia, questo Returner è un curioso, non disprezzabile ibrido tra la science fiction apocalittica di Terminator (citato non solo nell'analogo spunto iniziale, ma anche in alcuni successivi snodi narrativi), quella hi-tech e "di frontiera" di Matrix (con l'ormai immancabile bullet time, qui addirittura provocato, nella trama, da un apposito marchingegno, con un'intelligente trovata metacinematografica), e quella positiva, intrisa di ottimismo e fiducia nel futuro, che più di due decenni fa Steven Spielberg ci fece conoscere con i suoi Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. L'extraterrestre. Certo, con queste premesse si potrebbe pensare di trovarsi di fronte ad un prodotto ardito, sperimentale, coraggiosamente "di contaminazione": niente di più sbagliato, poiché l'amalgama di questi elementi ha prodotto al contrario un solido film d'azione, diretto con buon mestiere ma senza particolari guizzi, e sorretto da una sceneggiatura che non brilla certo per originalità. Yamazaki prende a modello temi ed estetica dei blockbuster fantascientifici hollywoodiani (oltre a scene d'azione che sembrano richiamare gli ormai abusatissimi scontri a fuoco "alla John Woo") evitando qualsiasi tentazione sociologica (fatto salvo un generico, blando messaggio pacifista) e confezionando un film pensato appositamente per il pubblico (grazie anche alla presenza di una star come Takeshi Kaneshiro, opposto allo statuario Goro Kishitani, già visto in The Call - Non rispondere), che non tradisce mai la sua matrice di puro prodotto di intrattenimento.

Il cinema giapponese mainstream occhieggia così a Hollywood, riprendendone canoni estetici e modalità produttive, facendosi impersonale e svendendo, in qualche modo, la propria identità. Certo, è da dire che, nel caso specifico, l'operazione ha funzionato: il film ha un buon senso del ritmo, la regia è solida, il tema, per quanto superficialmente affrontato, è di sicura presa. Quello che manca a un'opera come questa è proprio una sua personalità, intesa non solo come localizzazione geografica e culturale (comunque legittimamente attesa da una cinematografia che ha prodotto, sia pur in un campo diverso come quello dell'animazione, un film intitolato Akira), ma anche e soprattutto come approccio alla materia, lo stesso che qui resta scolastico, anonimo, privo di una sua precisa determinazione stilistica. E' pur sempre artigianato cinematografico, certo, e chi scrive ha sempre sostenuto l'importanza di un'idea di cinema basata su questo concetto: in questo caso, tuttavia, era la stessa qualità del materiale trattato a richiedere un approccio diverso, più attento alla pregnanza e al potenziale spessore del soggetto. Per avere un esempio di fantascienza nipponica più "personale", e culturalmente più caratterizzata, dovremo attendere il più interessante (seppur cinematograficamente imperfetto) Casshern, blockbuster datato 2004 che dovrebbe presto approdare nelle nostre sale.

Movieplayer.it

3.0/5