La visionarietà erotico-pischedelica di Help me Eros, Il crudo realismo del cinema di Brillante Mendoza, la tenera naturalezza dei bambini malesi protagonisti di Flower In The Pocket, i guizzi surreal-demenziali dell'ultimo Takeshi Kitano, la follia citazionista del western di Takashi Miike, il rigore formale e morale del film cinese vincitore In Love We Trust. Sono tante le immagini che si accavallano nella mente, intrecciando richiami e suggestioni, al termine della sesta edizione dell'Asian Film Festival, che ha portato dal 19 al 26 luglio al Palazzo delle Esposizioni di Roma una selezione del cinema orientale circolato nei maggiori festival dell'anno precedente.
A pochi giorni dalla conclusione del Festival i ricordi si sovrappongono e si fondono in un gigantesco calderone visivo, da cui è ancora possibile, tuttavia, discernere linee dominanti e tratti ricorrenti che caratterizzano le singole opere. Tra i possibili fili rossi che uniscono la selezione di quest'anno soprattutto uno spicca fra gli altri: la giovinezza e l'adolescenza (al centro anche di una sezione speciale), vissuta nella maggior parte dei casi in maniera problematica e conflittuale. Ma anche il sesso in tutte le sue possibili declinazioni e varianti, soprattutto quelle più alternative e provocatorie; e la famiglia, intesa come nucleo disfunzionale sempre pronto a esplodere e a sconvolgere irreparabilmente gli equilibri emotivi.
La rassegna, organizzata dal cineforum "Robert Bresson" e diretta da Antonio Termenini, è nata nel 2002 sotto il segno di Taiwan (tanto che il nome originale era "Taiwan Film Festival"), con l'obiettivo di omaggiare la New Wave sbocciata in quegli anni nell'isola e incarnata da maestri quali Tsai Ming-liang, Edward Yang e Hou Hsiao-hsien. A sei anni di distanza, dopo l'approfondimento di svariate altre cinematografie orientali, l'Asian Film Festival decide di tornare alle origini, gettando una nuova luce sul cinema dell'ex isola di Formosa, che nel frattempo ha sofferto di un parziale periodo di crisi. Su trentatré titoli che compongono la selezione, difatti, ben dodici opere provengono da Taiwan, tra cui sei in concorso, due fuori concorso e quattro film che compongono una sezione dedicata al genere adolescenziale: "Youth on Youthness in Taiwan" (l'altra sezione speciale del Festival, "AsianDoc", è invece dedicata ai documentari asiatici, con un occhio di riguardo per le tematiche ambientali).
Una consistente rappresentanza, quella taiwanese, che ha permesso di delineare un panorama completo di una cinematografia, come ha giustamente affermato Antonio Termenini, "in piena rinascita". Da un lato è ancora forte il peso dei grandi maestri: ne è un esempio Lee Kang-Sheng, uno degli ospiti del Festival, storico attore-feticcio di Tsai Ming-liang, che anche nella sua opera seconda come regista, Help me Eros!, non riesce a distaccarsi del tutto dai modelli dal suo mentore. D'altra parte, molte giovani leve si segnalano per il perseguimento di un percorso stilistico personale, che li ha consentiti di farsi apprezzare nelle più importanti manifestazioni cinematografiche. È il caso di Lin Jing-jie, premiato alla scorsa Settimana della critica veneziana con The Most Distance Course, opera di elaborata ricerca formale per quanto concerne il rapporto tra suono e immagine; oppure della regista queer Zero Chou, presente al Festival con Drifting Flowers, che scandaglia con arditezza e disincanto il tema dell'omosessualità femminile.Ma le maggiori sorprese provengono forse dallo sguardo, delicato, intenso, eppure mai retorico né conciliante, con cui i registi dell'isola affrontano i soggetti e le tematiche giovanili: la sezione "Youth on Youthness in Taiwan" è una vera e propria rivelazione, se si pensa al modo con cui nel nostro paese ci si approccia al medesimo genere giovanilista. Viene da dire: Taiwan è vicina, perché vi si ritrovano i medesimi filoni e generi che da noi hanno successo; ma al contempo è anche molto lontana, per la diversa sensibilità che separa questo cinema dai prodotti commerciali nostrani. Valgano due titoli per tutti, Eternal Summer di Leste Chen e Reflections di Hung I-yao, esemplificativi dei caratteri di questa sorta di "Youth Wave": opere formalmente ricercate, problematiche - non a caso si insiste spesso sulla tematica omosessuale - e, soprattutto, assolutamente non risolutive nei riguardi delle contraddizioni e delle idiosincrasie adolescenziali. Tutt'altra cosa rispetto alle Notti prima degli esami di casa nostra...
Il predominio di Taiwan ha dunque costretto a ridurre notevolmente gli spazi riservati al restante cinema d'Estremo oriente, imponendo delle precise scelte di campo. Gli organizzatori hanno deciso di riservare pochi titoli alle cinematografie asiatiche più tradizionali e consolidate, come Giappone e Corea del Sud, prediligendo in ogni caso opere di autori già affermati: Im Kwon-taek con Beyond the Years (unico film sudcoreano della selezione, se si eccettua il documentario Grandmother's Flowers di Mung Jeong-hyun) e i nipponici Takeshi Kitano (Glory to the Filmaker!), Takashi Miike (Sukiyaki Western Django) e Shinji Aoyama (Sad Vacation). Limitata la rappresentanza cinese, vista anche la momentanea situazione di chiusura politica pre-Olimpiadi: In Love We Trust di Wang Xiaoshuai, disperato ritratto di due coppie nella Nuova Cina, premiato come miglior film dalla giuria del Festival; Sweet Food City di Gao Wendong, smaccatamente influenzato dal lavoro di Jia Zhang-ke, e il documentario Umbrella di Du Haibin. Invece, nessun titolo proveniente da Hong Kong (con l'esclusione delle coproduzioni Blood Brothers di Alexi Tan e Secret di Jay Chou), né dalla cinematografia tailandese, quest'ultima oppressa da un inasprimento della censura e da una virata autoritaria del governo. Lo sforzo dei selezionatori si è quindi concentrato sulle nuove realtà emergenti del Far East, sondando territori meno conosciuti, ma sorprendenti per vitalità creativa. Spicca per quantità e varietà d'apporti Singapore, con ben quattro opere presenti in rassegna, che oscillano dalla comicità demenziale del "musical-melò" 881 di Royston Tan, alla commedia degli equivoci epistolari 18 Grams of Love di Han Yew Kwang - entrambe popolaresche e naif, ma genuine e piene di trovate pop -, passando per la sperimentazione autoriale del dramma satirico Gone Shopping di Wee Li Lin. Oltre alla fugace apparizione del Vietnam, con il trascurabile melodramma action in salsa meta-cinematografica Saigon Eclipse di Othello Khanh, è da segnalare soprattutto la scoperta del malese Flower in the Pocket di Liew Seng Tat, già premiato a Pesaro: un racconto minimalista di abbandono e di aridità dei sentimenti, tutto affidato ai teneri sguardi dei due piccoli protagonisti. A un regista filippino è, infine, dedicata per la prima volta la retrospettiva dell'Asian Film Festival: si tratta di Brillante Mendoza, autore conosciuto ai festival internazionali sin dal suo esordio The Masseur, che gli è valso il Pardo d'oro nella sezione video del Festival di Locarno 2005, e consacrato ufficialmente con l'ultimo lavoro Serbis, selezionato per il concorso del Festival di Cannes 2008. L'Asian Film Festival propone una rappresentanza di cinque titoli sugli otto che compongono la sua attuale filmografia, sufficienti per mostrare l'evoluzione di un regista che, nonostante i mutamenti stilistici, ha sempre mantenuto la riflessione sul reale al centro della sua poetica. A partire da Summer Heat (2006), melodramma familiare ancora acerbo e imbrigliato nello stile mainstream, evolvendosi fino al minimalismo documentario di The Teacher (2006) e Foster Child (2007), passando al frenetico dinamismo di Slingshot (2007) - che ricorda da vicino opere quali City of God -, fino al parziale cambio di rotta di Serbis, più influenzato da riflessioni autoriali sul mezzo cinematografico alla Tsai Ming-liang. Ciò che Mendoza non abbandona mai è lo sguardo umanista verso gli ultimi e i dimenticati (che si tratti della comunità isolata sulle montagne ritratta in The Teacher, oppure dei derelitti degli slum di Manila di Slingshot), in cui non manca mai la denuncia nei confronti delle istituzioni politiche e religiose.Trascinare il pubblico al cinema per vedere film asiatici nel cuore dell'assolata estate romana è impresa senza dubbio titanica. Partendo da questi presupposti, e considerando anche il limitato budget a disposizione degli organizzatori (a detta dello stesso Termenini questa è stata l'edizione in cui si sono riscontate maggiori difficoltà nel trovare finanziatori), nel complesso la manifestazione si può definire riuscita. Anzi, l'occasione di questo improvviso spostamento di calendario a luglio (solitamente la manifestazione si svolgeva in un mese più consono ai festival cinematografici come ottobre) ha consentito di rafforzare il legame tra cinema e promozione turistica e culturale, al centro dell'iniziativa "Asia Media Tourism Expo". Inaugurata tre anni fa, la vetrina prevede un ciclo di incontri e conferenze volte a rafforzare le relazioni tra l'Italia (e Roma in particolare) e i paesi dell'Estremo oriente a livello turistico e commerciale.
A sei anni dalla nascita l'Asian Film Festival conferma la sua vocazione nel fornire un panorama il più possibile completo delle cinematografie asiatiche, oscillando senza soluzione di continuità dalle opere d'autore alle produzioni più commerciali, dal cinema dei grandi maestri all'interesse nei confronti delle giovani promesse. Ci si può chiedere se, oggigiorno, è ancora valida l'impostazione "di recupero" dei film che hanno riscontrato maggior successo nei principali festival europei (Berlino, Cannes), o italiani (Venezia, Pesaro, Far East Film Festival di Udine) della passata stagione. Alla luce della più facile reperibilità di questo tipo di opere (tramite internet e il supporto dvd), nonché della sempre più ipertrofica proliferazione di festival tematici (inclusi quelli dedicati al cinema orientale), si potrebbe riflettere nelle prossime edizioni sull'opportunità di mutare alcuni assetti del Festival, magari dando ancora maggior spazio agli inediti, agli esordienti e ai territori inesplorati.