Storia di una ladra di libri, la Shoah vista da una bambina

Il nostro incontro con il regista Brian Percival e con due delle interpreti principali, Sophie Nélisse e Emily Watson, del film tratto dal romanzo di Markus Zusak; 'Questa è l'emozionante storia di una ragazzina che affronta la vita con spirito e di quelle persone ordinarie che sono diventate eroi', ha detto Percival.

L'atmosfera è quella più giusta per incontrare Brian Percival, Sophie Nélisse e Emily Watson, rispettivamente regista e interpreti di Storia di una ladra di libri, film, in uscita il prossimo 27 marzo, ispirato all'omonimo romanzo di Mark Zusak; la Giornata della Memoria, data che si celebra in tutto il mondo per ricordare l'orrore perpertrato dai Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, dà un ulteriore valore alla piacevole chiacchierata che abbiamo fatto proprio con chi ha dato corpo agli incubi di quel periodo, consegnandoci la commovente vicenda di una bambina che scopre la brutalità della guerra e al contempo riesce a sconfiggerla attraverso il bellissimo rapporto che la lega ai libri.

Liesel arriva in Germania nei primi anni '30, dopo una difficoltosa traversata che è costata la vita all'adorato fratellino, e viene adottata da Hans (Geoffrey Rush) e Rosa. Analfabeta, insofferente verso gli alunni della sua scuola, che la prendono ripetutamente in giro, riesce ad essere felice solo con l'amico Rudy e con il generoso 'nuovo' papà che per primo le insegna a leggere. Quando nella vecchia casa degli Hubermann piomba Max, giovane ebreo che tenta di sottrarsi ai rastrellamenti, la bambina inizia a comprendere quanto siano importanti fantasia e voglia di raccontare per non soccombere alla violenza umana. Comincia così a scrivere e a leggere con voracità i libri che le vengono messi a disposizione dalla moglie del Borgomastro e quando il nuovo amico si ammala gravemente, ne ruba qualcuno per leggerglielo durante la convalescenza, convinta che nelle parole ci sia il segreto della vita. Davanti alle nuove e terribili prove che è costretta ad affrontare, saprà esattamente cosa fare.

Raccontare la Storia
Scritto da Michael Petroni, il film racconta l'Olocausto da un punto di vista diverso, attraverso cioè gli occhi di una bambina coraggiosa. "E' questo che mi ha spinto ad accettare la direzione del film - ci racconta Percival -, prima ho letto la sceneggiatura e poi mi sono deciso a leggere il romanzo di Zusak e ho subito amato il fatto che mostrasse alla perfezione lo spirito umano di questa ragazzina che affronta le difficoltà della vita; insomma, c'erano tante emozioni che provavo e a diversi livelli. Ecco perché credo che questo non sia un film solo sull'Olocausto". Per Percival, però, la sfida è stata soprattutto quella di non imporre nulla allo spettatore. "Non ho mai amato quei film che mi dicono cosa pensare, provo versi di essi rifiuto e risentimento - dice il regista -, preferisco una via diversa per arrivare al cuore dello spettatore, voglio essere invisibile e sedurre il pubblico con leggerezza e gentilezza, senza che se ne renda conto". Un'impostazione utile soprattutto per conquistare i più giovani. "Provate a imporre qualcosa ad un ragazzo o a una ragazza e subito si allontaneranno da voi - aggiunge -, devono essere loro a voler scoprire qualcosa di più sull'argomento. E questa possibilità di affascinare è stata resa possibile dalla bellezza dei personaggi. Alcune persone hanno seguito il Nazismo pensando che fosse qualcosa di buono, altri per paura, altri invece si sono ribellati e hanno messo a repentaglio la propria vita per il bene degli altri. Di questo parla il film ed è bello andare a vedere quali sono le vere situazioni che muovo le persone ordinarie".
La ricchezza di una grande esperienza Sophie Nélisse ha solo tredici anni e rientra perfettamente nel target individuato da Percival, per questo il suo giudizio sull'esperienza compiuta appare ancor più interessante. "Lo ammetto, all'inizio non ero minimamente interessata a fare il film, sono una ginnasta e avrei voluto allenarmi per le Olimpiadi - ci racconta sfilandosi le scarpe col tacco e accoccolandosi sulla poltroncina -, ma già dopo il primo provino a Los Angeles speravo di avere la parte. Al secondo, che ho fatto a Berlino, ero talmente presa dal personaggio di Liesel da volerlo interpretare a tutti i costi. Ho fatto una scelta ben precisa, ho lasciato la ginnastica per diventare attrice a tempo pieno". Dopo il bellissimo Monsieur Lazhar, dunque, per Sophie arriva una nuova sfida. "Come molti ragazzi della mia età, non conoscevo molto di quel periodo, ma ho imparato molto sull'Olocausto - afferma l'interprete canadese -, a scuola avevamo letto La valigia di Anna e visto dei documentari sui campi di concentramento, inoltre mia nonna è nata in Belgio durante la Seconda Guerra Mondiale. E' stata davvero un'esperienza bellissima".

Un'esperienza indimienticabile anche dal punto di vista squisitamente professionale. "Il mio personaggio richiedeva che si passasse da toni leggeri ad altri più dolorosi, ma sono riuscita a farlo con naturalezza - spiega -, anche perché avevo dei partner fantastici. Geoffrey Rush è un clown, fino al secondo prima del ciak ride e scherza senza smettere mai, poi riesce ad entrare subito nel personaggio. Sembra un mago che fa un trucco! Emily poi è stata semplicemente straordinaria. Continuava a parlarmi con l'accento tedesco anche fuori delle riprese".

La sfida di un personaggio
Forse non si è mai esaltato abbastanza il talento di un'attrice di razza come Emily Watson, interprete tra le più duttili in circolazione; in questo caso veste i panni di Rosa Hubermann, madre adottiva di Liesel, donna dai modi spiccioli, piuttosto rude e sbrigativa, ma profondamene affettiva e dolce, un ruolo che l'ha obbligata ad utilizzare un doppio registro. "E' sempre un dono poter interpretare un personaggio 'sgradevole' - ci dice -, in fondo è come se si indossasse una maschera, puoi davvero lasciarti andare. Certo, dopo qualche settimana mi ero già pentita, ma il dado era tratto". Così come per Sophie, anche per Emily è stata importante l'alchimia che si è creata sul set con Geoffrey Rush. "Abbiamo già intepretato una coppia in Chiamami Peter - racconta -, io e lui abbiamo in comune un certo senso dell'umorismo, sapevo che non se la sarebbe mai presa se fossi stata un po' cattiva. Rosa è così, è donna che non vive mai nel presente, è sempre proiettata nel futuro e preoccupata da quello che potrebbe essere della sua vita e di quella delle persone che ama; eppure, quando a casa arriva Max cambia completamente. Penso che Rosa fosse l'obiettivo tipico dei nazisti, nonostante questo però riesce a prendere la decisione onesta e giusta".
La ricostruzione
Girato in Germania, tra Berlino e Görlitz, il film è stato poi completato allo Studio Babelsberg di Potsdam, una scelta prettamente logistica, che però si è rivelata utili anche in termini estetici. "Abbiamo fatto una serie di ricerche e sopralluoghi e non è stato possibile girare nella città descritta dal romanzo semplicemente perché era stata tutta rasa al suolo dai bombardamenti, se si eccettua per la chiesa - dice Percival -, e poi i tedeschi hanno ricostruito tutto, quindi niente si adattava alla perfezione ad un'accurata ricostruzione storica. In più c'erano grossi problemi legati alle condizioni meteorologiche piuttosto rigide. In certi casi la neve era così alta che abbiamo dovuto cambiare in corsa il piano di lavorazione, ecco perché ci siamo decisi ad andare in studio. Questo mi ha dato la possibilità di filmare la stessa casa da diversi punti di vista, una libertà per me fondamentale".