Splatter House
Difficile ricondurre a un'unica categoria interpretativa un film come Dream Home, anomale perfino in rapporto alla precedente filmografia dell'eccentrico e fluttuante regista cinese Pang Ho-cheung, che nella sua carriera non ha mai mantenuto un preciso baricentro registico, ma ha oscillato di continuo tra più generi, stili, e registri, dal noir grottesco alla commedia romantica adolescenziale. L'unica categoria può essere forse solo quella della specificità, del tutto peculiare, del cinema hongkonghese, capace di osare sfrontatamente oltre le frontiere del visibile e di varcare i limiti delle convenzioni cinematografiche occidentali, fornendo opere spiazzanti che si collocano sempre al crocevia tra genere e autorialità.
Così è Dream Home, un film che si dice ispirato a una storia vera, e che nell'incipit sciorina dati statistici sulla condizione economica dei cittadini di Hong Kong. Eppure un'opera niente affatto documentaria nello stile, ma anzi iperrealista fino ai limiti del grottesco. Un film di genere a tutti gli effetti, per la precisione uno slasher spietato e ultraviolento che non si ferma davanti a nulla e ostenta, senza censure o stacchi di montaggio, le peggiori efferatezze splatter. Al tempo stesso Dream Home è però anche una lucida condanna della società dei consumi, colpevole non solo di incanalare le ambizioni delle persone in desideri materialisti, ma di trasformare persino le stesse persone in oggetti (anche attraverso il sesso), sezionabili e smontabili a piacimento. L'opera manifesto di Pang è un pamphlet accusatorio nei confronti della sfrenatezza del mercato, in particolare quello immobiliare. Fin da bambina, la protagonista (condizionata dalla società in cui vive e agisce) matura un unico desiderio: un meraviglioso appartamento con vista sul mare. Decide di raggiungere il suo scopo servendosi delle uniche armi che possiede: una furia sfrenata e amorale che letteralmente fa a pezzi tutti i prodotti della società borghese, senza pietà per alcuno, dai vecchi ai giovani, fino a un intero nucleo familiare.
Con una carica eversiva che può richiamare (con le dovute proporzioni, s'intende) a Love Massacre, capolavoro autoriale e politico di Patrick Tam, oppure agli sperimentalismi di Tokyo Fist di Shinya Tsukamoto, Dream Home non rinuncia tuttavia agli eccessi grotteschi e di humour nero tanto cari a Pang. Un esercizio di stile che si fonda sulla raffinata struttura narrativa diacronica, ricca di flashback e digressioni, sulla ricercatezza formale delle inquadrature (in particolare dell'inquietante e minaccioso skyline hongkonghese, che diviene quasi il protagonista del film), sull'efficace utilizzo di alcune metafore (soprattutto il bisogno di "aria" di cui necessitano tutti i personaggi, soffocati costantemente da un'atmosfera asfittica e asfissiante). Ma non va trascurato l'apporto dell'attrice protagonista Josie Ho, che si cimenta con incredibile naturalezza in un ruolo ai confini del grottesco; e l'incalzare della colonna sonora del nostro Gabriele Roberto, mai invadente, ma che contrappunta alla perfezione l'escalation di follia omicida.