Sotto il tendone del porno
Il rutilante circo del porno secondo Paul Thomas Anderson. Nascita e morte (artistica?!?) dell'ultimo divetto sfornato dal controverso palcoscenico dell' "hard".
Se da quelle parti ti mettono una coroncina in testa e ti spacciano per novello Connery, l'importante è avere un po' di sale nella zucca per capire che quei burloni amano prenderti per i fondelli; o forse ci credono, ma si curano ben poco del fatto che reciti coi piedi. L'importante è che funzioni qualcos'altro: "a buon intenditor poche parole".
1977: l'attorucolo, appena diciassette primavere, all'anagrafe fa Eddie Adams (Mark Wahlberg: La tempesta perfetta, The Italian job) e prima di finire davanti ad una cinepresa serviva ai tavoli di un "night". Morale della favola: non che lo "Stanislavskij" sia necessario ma a vederlo "recitare" ci si contorce dalle risate causa spiccata inclinazione autoparodistica (involontaria ovviamente).
In un batter d'occhio quell'anonimo giovanotto - che nel frattempo si è dato l'ampollosissimo pseudonimo di "Dirk Diggler" - si trasforma in una star di prima grandezza. Durata della gloria? Pochi giri d'orologio. Il burattinaio che ne ha creato il mito - il regista Jack Horner (Burt Reynolds: Un tranquillo weekend di paura, Striptease) - decreta la fine della meteorica carriera dell' "ei fu" Mr. Adams. Lontano dal porno e dai suoi fiumi di coca, il buon Diggler scivola ancor più in basso: fallisce con un improponibile progetto discografico fino a cadere nella trappola del malaffare d'infimo lignaggio. Tanto vale implorare il cinico burattinaio di cui sopra pur di ritrovare un posto al sole. E la stella di Dirk Diggler tornerà a brillare...
Il fresco talento di Anderson griffa una pellicola dal solido impianto narrativo, soffocato da un Mark Wahlberg emblema del trionfo del "manierato", a fronte di un buon cast dalle potenzialità deliberatamente sottodimensionate (Menzione speciale alla cialtroneria di Reynolds e alla conflittualità interiore di un'ottima Julianne Moore). In un progetto di chiaro segno anti-corale, il padrone della scena meritava di essere interpretato da un attore in grado di garantire una performance ben più ironica e sofferta, magari pescando nel ricco sottobosco dei talentuosi "border-liner" hollywoodiani.
Se Wahlberg gira a scartamento ridotto, l'indubbia qualità del lungometraggio tende perfino a mascherarne i limiti: Anderson dipinge un affresco dominato da tonalità intense e contrassegnato da passaggi cromatici netti, sia in termini narrativi che strettamente fotografici (vedi su tutti gli interni e il vestiario). A lavoro concluso, l'ardita giustapposizione cromatica realizzata dal regista incornicia un'opera volutamente barocca laddove la pacchiana ridondanza di tonalità dal forte impatto visivo non rappresenta che l'ironico contraltare di una realtà grigia e nichilista: riflessioni da penna critica che trascendono la quintessenza di un film che non si macchia di superficiale moralismo grazie all'abilità di un regista di sicuro avvenire.