Il corpo come centro assoluto, e una mutazione orrorifica indotta da un'epoca in cui l'apparenza e l'attenzione dettano i ritmi della vita. Che Kristine Kujath Thorp fosse una grande attrice lo avevamo già capito in Ninjababy, ma ora abbiamo una certezza in più. Basti vedere come muove gli occhi, dietro la protesi di protuberanze e cicatrici, che indossa in Sick of Myself di Kristoffer Borgli. Un ruolo complesso, quello che rende un'attrice orgogliosa del suo lavoro. Anche perché, dopo aver visto il film, l'idea che abbiamo della protagonista, Signe, continua ad essere sfumata. Vittima o vittima di se stessa? Narcisista o anima fragile, in balia della solitudine?
A raccontare il film, presentato a Cannes e in Italia arrivato grazie a Wanted, proprio la norvegese Kristine Kujath Thorp, che via Zoom, sfoggiando un'irresistibile sorriso, spiega: "So che molte persone la odiano, ma credo di essere molto dispiaciuta per lei. Penso che abbia una mente molto oscura. E lavorare con un personaggio per così tanto tempo e andare così a fondo nella sua vita, al di là di quello che vediamo nel film, è qualcosa di entusiasmante. Per me è difficile non innamorarmi di un personaggio quando sai da dove viene e come è diventato. Credo di provare compassione per Signe".
Il lavoro sul corpo, tra protesi ed emozioni
La storia, infatti, è quella di Signe che, per catturare l'attenzione del suo compagno, apprezzato artista, comincia a fingere dei malori. La situazione le sfugge di mano quando inizia ad assumere un medicinale bandito, che le deturpa il viso con delle vistose escrescenze. Un lavoro interpretativo complesso, che inizia proprio dal corpo: "Beh, gran parte del personaggio è costituito dal lavoro delle protesi e, come hai detto tu, dal corpo e dai suoi fluidi corporei e da tutto questo lavoro estetico", prosegue l'attrice. "Quindi, direi che gran parte del lavoro è compito del progettista. Voglio dire, è un personaggio a sé stante. Per me, il lavoro consisteva soprattutto nel cercare di capire la protagonista e comprendere come sia possibile arrivare a questi estremi per attirare l'attenzione. Ho parlato molto con Kristoffer, ovviamente, e ho fatto anche molte improvvisazioni, che di solito faccio prima di iniziare le riprese, testando molte cose e cercando di conoscerla e di entrare nella sua pelle".
I medicinali giocano un ruolo fondamentale in Sick of Myself, creando in lei una dipendenza tossica. Eppure, la prima tossicità arriva dalla relazione che ha Signe con Thomas, interpretato da Eirik Sæther. "Sì, è una relazione estremamente tossica. Ma credo che queste due persone tendano a stare insieme perché si sfidano e si rispecchiano l'una nell'altra. Si vedono nell'altra persona, stare insieme è come un gioco per loro. Un gioco a chi è il più bizzarro o chi è il più attento a ricevere le maggiori attenzioni. Credo che in una relazione distruttiva come quella, si desideri così tanto l'amore che quando finalmente se ne ottiene solo un accenno si è davvero felici, e diventa una specie di droga. E poi lei inizia a drogarsi davvero, perché lo vede come un peso, come un mezzo per ottenere sempre più attenzioni, e non riesce a fermarsi", racconta Kristine Kujath Thorp.
Le maschere che indossiamo
Nel film di Kristoffer Borgli l'umorismo nero tiene il ritmo della narrazione. Una chiave specifica, e lampante. "Quando ho letto la sceneggiatura, ho pensato che fosse esilarante, ma allo stesso tempo mi sono sentito molto triste", spiega l'attrice. "E credo che l'aspetto davvero speciale di questo film sia che lo guardi e ridi e pensi che sia esilarante, ma allo stesso tempo ti fa male, e non sai come sentirti quando lo guardi. E credo che questo sia interessante. Per me e Kristoffer è stato molto importante non prendere in giro Signe mentre la interpretavo, prendevamo tutte le sue azioni molto seriamente. Ed è questo che la rende divertente senza essere caricaturale".
Altro tema, la maschera. Una maschera auto-imposta, e imposta da una società dedita all'apparenza. "Penso che ci venga costantemente detto che dobbiamo essere speciali, che dobbiamo essere qualcuno o essere visti, e che l'attenzione equivale all'amore. E ci siamo fatti un'idea sbagliata di cosa sia l'amore. Se ricevi un sacco di like su Instagram, ti senti bene, ti sembra amore, ma alla fine ti senti solo molto vuoto e molto triste. Quindi, sì, è così che la penso. E credo che molte persone, me compresa, siano davvero assorbite dalla fame di attenzione o di essere viste. Credo che questa sia la linea di fondo. È solo gente che vuole essere vista e che vuole essere ricordata".