Rifare un classico implica, per la natura stessa della derivazione, il confronto, un confronto che spesso nuoce alla declinazione in questione. Attingere a un (corpus) classico letterario che ha già generato trasposizioni celebri e reinventare un personaggio come Sherlock Holmes - vera e propria icona di Albione - è un azzardo così ardito da meritare ammirazione. Al cinema, il bromance action-packed di Guy Ritchie con l'iperbolico Robert Downey Jr. nei panni di Sherlock Holmes ha vinto grazie alla sfacciataggine con cui ha preso le distanze dai riveriti romanzi e racconti composti da Sir Arthur Conan Doyle, ma una versione più rispettosa può fare i conti con l'antenato letterario e gli adattamenti canonici con Basil Rathbone?
Steven Moffat e Mark Gatiss, amici di lungo corso ed entrambi sceneggiatori di un'altra icona britannica, Doctor Who, durante i frequenti viaggi in treno da e per Cardiff si raccontano reciprocamente l'antica passione per l'opera di Arthur Conan Doyle e decidono di riportare il grande investigatore sullo schermo. Il progetto diventa una produzione della Hartwoods Films e di BBC, e i due si preparano a sceneggiare un nuovo adattamento televisivo per la stagione autunnale. Nel frattempo, l'astuto personaggio vittoriano viene riesumato da un altro compatriota, l'irriverente Guy Rutchie, il quale si inventa una versione rocambolesca e adrenalinica dell'investigatore che funziona benissimo dal punto di vista dell'intrattenimento e dello humour. L'episodio pilota partorito da Moffat/Gatiss intanto è stato promosso a miniserie - tre episodi da 90 minuti ciascuno - ma posticipato all'estate successiva, non proprio l'alta stagione della programmazione televisiva.
Interamente scritto dallo stesso Steven Moffat il primo episodio (in realtà esiste un pilota mai trasmesso ma reperibile in dvd dal 30 agosto), mentre Gatiss ha sceneggiato il terzo; il secondo è toccato all'emergente Steve Thompson. Moffat, che aveva già riscritto il Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson (l'imperdibile miniserie Jekyll), ambienta ai giorni nostri anche le avventure di Holmes e Watson e ci mostra la sua versione contemporanea dei due protagonisti. L'Holmes del XXI secolo ha una personalità vagamente "aspergeriana", non ha amici, o meglio ne ha solo uno, che incontrerà proprio nel primo episodio; il suo peggior nemico è la noia, da cui riesce ad affrancarsi solo risolvendo casi incomprensibili per chiunque altro. Il suo lavoro è più unico che raro - lo ha inventato lui -: è un consulente investigativo e lavora quasi esclusivamente per una sola persona, il detective Lestrade (un Rupert Graves nell'inedito ruolo del quarantenne anonimo) che lo interpella quando in presenza di delitti irrisolvibili. Gli altri poliziotti definiscono Holmes un freak, ma temono la sua schiettezza e la facilità con cui è in grado di spogliarli dei loro più intimi segreti con un solo sguardo.
L'unica altra persona indispensabile nella sua vita, è il Dr. Watson: sveglio, pazientissimo, umano, regolarmente scambiato per compagno dell'investigatore e irresistibilmente attratto dal lato oscuro del coinquilino, proiezione del suo stesso anelito al pericolo. Provando a sostituire il nome di Sherlock Holmes a quello di Gregory House, e quello di John Watson con James Wilson si noterebbe che la descrizione sopra vale anche per i personaggi di Dr House: Medical Division; che l'House di David Shore sia ispirato a Holmes è fatto risaputo - notiziona per chi, a distanza di sei anni, scodella ancora libretti dedicati a questo argomento esaurito da tempo - ma è inopinabile che l'elaborazione di Holmes e Watson effettuata da Shore su House e Wilson costituisce l'anello di congiunzione nella traslazione degli Holmes e Watson di Arthur Conan Doyle in quelli di Moffat e Gatiss.
Anche i due sceneggiatori britannici hanno colto l'ovvietà dell'equivoco sui termini del rapporto tra i due partner, coinquilini spesso scambiati per coppia, costretti a spiegare sia al resto del mondo che l'uno all'altro il proprio disinteresse sessuale, con esiti imbarazzanti e buffissimi. Paradossalmente, il geniale, scontroso, cinico, sopra le righe e a volte disumano investigatore è anche il trait d'union tra Sherlock e Doctor Who: dall'Undicesimo Dottore moffatiano eredita alcune "qualità", come l'asessualità e una certa ingenua pedanteria del solitario alieno, anch'egli troppo intelligente rispetto a tutti gli altri, annoiato a morte, bisognoso di avventure e di un partner che ne mantenga viva l'umanità.
A vestire i panni di Holmes, Benedict Cumberbatch, attore poco noto dalle nostre parti che in questo frangente esibisce - saranno gli occhi azzurri un po' orientali, sarà la sciarpa, saran le droghe e la convivenza con il più sensibile amico - una somiglianza impressionante con il Richard E. Grant del Brit Cult Shakespeare a colazione (co-protagonista Paul McGann, l'Ottavo Dottore...): meno povero, meno evanescente e meno disperato, ma altrettanto visceralmente londinese.
Moffat attinge ampiamente al romanzo degli esordi Uno studio in rosso: dopo l'incontro con il candidato coinquilino, inspiegabilmente attratto dalla sua arroganza e dalle sue capacità deduttive, il detective viene chiamato da Scotland Yard a esprimere la sua opinione su un presunto suicidio: Holmes osserva il corpo della donna, vestita di un rosa acceso e amante degli accessori dello stesso colore, e si convince di essere in presenza di un omicidio. La scritta sul pavimento, la roulette russa col veleno ricalcano la traccia del romanzo, il resto è ingegno dello scozzese, che riabilita la figura di Watson restituendoli la competenza - Holmes si fida delle sue osservazioni e delle sue conoscenze mediche - e l'umanità del corrispettivo letterario. La risoluzione del caso rivela analogie con il romanzo, ma Moffat lo circonda di un alone profondamente nichilista, dalle ragioni e dai moventi quasi agghiaccianti.
Già in questa prima puntata aleggia lo spirito di Moriarty, la nemesi di Holmes; quest'ultimo non è alieno all'oscurità del cuore, e, imprevedibilmente, non lo è nemmeno Watson. Le tre figure sono accomunate dall'anelito al pericolo e all'eccitazione scatenata dal rischio, e A Study in Pink mostra un Holmes che ama danzare sulla linea di confine tra vita e morte. Sia Watson che Moriarty sono in grado di percepire questo fatale punto debole, dimostrando che anche il cuore del genio della deduzione è facilmente leggibile. Che Holmes non sia in grado di accorgersene, è imputabile alla sua illimitata arroganza e alla convinzione della sua superiorità intellettuale, tratti che Cumberbatch riesce a conferire al personaggio senza renderlo inviso al pubblico. Sherlock è anche pigrissimo, sbrigativo, egoista, egocentrico e incapace di provare empatia per le vittime, ma non manca del senso dell'umorismo.
La miniserie è costellata di battute e dialoghi divertenti e ingegnosi - quasi tutti attribuibili al cinico Holmes e all'ironico Watson -, di colpi di scena e di equivoci, come quello legato all'identità di Mycroft (lo stesso Mark Gatiss, che qui somiglia un sacco a Tim McInnerny in versione capitano Darling di Blackadder Goes Forth), il serioso fratello di Sherlock, del quale si prende cura con metodi davvero poco ortodossi.
Il caso di A Study in Pink riguarda una manciata di presunti suicidi sullo sfondo di una Londra gelida e alienante (la riprese della serie sono iniziata in un nevoso gennaio e sono costate un polso rotto a Freeman e una polmonite a Cumberbatch), The Blind Banker si concentra sulla City, la parte della metropoli dove risiedono le banche e le agenzie finanziarie con il tasso di suicidi più alti della capitale, ma questa volta la natura della morte della prima vittima indica decisamente l'omicidio. La seconda puntata, incentrata sul commercio clandestino di pezzi d'antiquariato dalla Cina, manca del ritmo e della complessità del precedente. Tra circhi cinesi, uomini ragno, archeologhe sexy e codici indecifrabili, The Blind Banker impiega un'ora e mezza a far luce su un caso che il buon Sherlock avrebbe potuto tranquillamente risolvere in un'ora, e poco aggiunge alla trama orizzontale riservata a Moriarty. Ben oltre il normale calo fisiologico previsto per l'episodio successivo al brillante A Study in Pink.
The Great Game premia lo spettatore con un incontro ravvicinato tra Holmes e la sua nemesi. Evidenti i rischi di non azzeccare il casting dell'attore chiamato a impersonare il temibile avversario di Sherlock, mirabile la scelta finale dell'interprete. Moriarty, autodefinitosi ironicamente l'unico consulente criminale sulla piazza, è l'indecifrabile personificazione del lato oscuro di Holmes: in comune hanno gli occhi ipnotici - ma quelli di Moriarty sono pozzi scuri - un desiderio insopprimibile di soffocare il tedio, l'anelito sfrenato all'esibizione della propria superiorità, un'indifferenza per la vita altrui che in Moriarty vira a disprezzo. La presenza dell'antagonista ridimensiona il cinismo di Holmes, e il finale di The Great Game oscura la stella di Holmes, eclissata dall'(anti)materia nichilista dell'animo vuoto e oscuro dell'antagonista: il quale rappresenta il Male nella sua declinazione più spaventosa, quella fine a se stessa. A differenza di Holmes, Moriarty è capace di dominare il proprio ego e occultare la sua aura dietro mediocri e innocue personalità fittizie. Il Male a prima vista ha un volto insulso e mediocre, ma lo sguardo profondo; la voce gelida e il sorriso beffardo stonano con l'aspetto anonimo di Moriarty e rivelano, nel momento della verità, la natura diabolica tenacemente celata. A prestare il suo volto al personaggio, il semisconosciuto attore irlandese Andrew Scott (Lennon Naked, John Adams... ma non andate a cercarlo finché non avete visto l'episodio!), autentica rivelazione di Sherlock, in grado di far trasparire un'anima talmente incomprensibile e deviata da risucchiare anche Holmes. E lo spettatore.