Shelley Duvall è come una preziosa porcellana con una personalità tintinnante. Non somiglia a nessun'altra, e se è vero che è nata per interpretare il personaggio di Olive Oyl (...), è anche vero che probabilmente ha interpretato tipologie davvero differenti di personaggi in numero maggiore di quasi ogni altra giovane attrice degli anni Settanta.
Nel gennaio del 1981, il critico Roger Ebert sottolineava con queste parole l'unicità di Shelley Duvall, nonché la versatilità sorprendente di cui l'attrice texana aveva dato prova nel suo primo decennio di carriera. Erano i giorni in cui nelle sale americane era da poco approdato Popeye - Braccio di Ferro, singolarissima collaborazione fra una major del calibro della Walt Disney e uno dei cineasti più innovativi e 'anarchici' della New Hollywood, Robert Altman: un esperimento a dir poco peculiare, senz'altro divisivo (Ebert si sarebbe schierato fra gli strenui sostenitori del progetto), ma in cui a mettere d'accordo tutti sarebbe stata appunto Shelley Duvall, impeccabile interprete di Olive Oyl, la ragazza di cui si innamora il Braccio di Ferro di Robin Williams. Ma pochi mesi prima, la Duvall aveva già conquistato il pubblico con un ruolo totalmente diverso in quello che si sarebbe attestato come il più importante film horror dell'intero decennio.
Attrice per caso, dal Texas alla New Hollywood
Il 1980, l'anno d'uscita di Shining di Stanley Kubrick e di Popeye - Braccio di Ferro di Robert Altman, rappresenta dunque il momento dell'apice assoluto nel percorso professionale di Shelley Duvall, scomparsa giovedì scorso, quattro giorni dopo aver compiuto settantacinque anni. È grazie a quei due film che la Duvall, nata a Forth Worth, in Texas, il 7 luglio 1949, sarebbe diventata un volto immediatamente riconoscibile per il pubblico di tutto il mondo. Eppure l'alba degli anni Ottanta, ovvero il tramonto della New Hollywood, segnerà anche l'inizio di una parabola discendente per la popolarità dell'attrice, la cui immagine bizzarra e fuori dagli schemi non avrebbe più trovato l'occasione di essere valorizzata come in passato. Del resto, una figura così in controtendenza rispetto al divismo classico hollywoodiano - nella fisionomia, nel look, nella scelta dei ruoli - non poteva che essere legata al clima di libertà e di anticonformismo della New Hollywood; e infatti non c'è da sorprendersi che, ad accorgersi del suo potenziale, sia stato l'occhio lucido e penetrante di Robert Altman.
Del resto, Shelley Duvall non aveva mai coltivato il sogno di recitare: da adolescente si era appassionata alle scienze, poi aveva preso un diploma come nutrizionista e fino ai vent'anni non aveva mai messo piede fuori dal Texas. L'ingresso nel mondo del cinema avviene quasi per caso, quando a una festa la ventenne Shelley conosce alcuni membri della troupe di Anche gli uccelli uccidono, la commedia surreale che Robert Altman, reduce dalla trionfale accoglienza di MASH, sta girando in quel periodo. Il regista di Kansas City intravede una qualità speciale in quella ragazza dall'aria svagata e decide di attribuirle una parte nel suo film: quella della guida turistica di cui si infatua il protagonista Brewster McCloud (Bud Cort). È il principio di una collaborazione decennale che si comporrà di ben sette film e si chiuderà proprio con il ritratto deliziosamente fumettistico di Olive Oyl in Popeye - Braccio di Ferro.
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Il sodalizio con Robert Altman: Gang, Nashville e Tre donne
Se quello di Robert Altman è un cinema aderente al reale, ma in grado soprattutto di coglierne le bizzarrie, le contraddizioni e le disillusioni, Shelley Duvall si sarebbe rivelata una perfetta interprete altmaniana, a partire dalle brevi ma incisive caratterizzazioni offerte nel western crepuscolare I compari, del 1971, e nel sarcastico affresco di Buffalo Bill e gli indiani, del 1976. Nel frattempo, nel 1974 Altman le affida il suo primo ingaggio da protagonista in Gang, in cui Shelley Duvall presta il volto a Keechie, che per amore del fuggiasco Bowie (Keith Carradine) molla la sua noiosa routine per imbarcarsi in un'esistenza da banditi: una sorta di rivisitazione (in chiave antispettacolare) del seminale Gangster Story, ma in cui la Duvall offre un ritratto ben più dolce e mansueto in confronto all'intraprendente Bonnie Parker di Faye Dunaway. Un anno più tardi, la venticinquenne Shelley compare nel cast corale del capolavoro altmaniano per antonomasia, Nashville, vertice insuperato della New Hollywood.
Dividendo la scena con altri ventitré comprimari, Shelley Duvall incarna con esemplare spontaneità la vacua e frivola Martha, soprannominata L.A. Joan, che approda nella capitale del Tennessee per recarsi al capezzale della zia moribonda, ma invece preferisce addentrarsi nel sottobosco musicale della città. Ma più ancora di Nashville, è un altro il film in cui Robert Altman saprà mettere a pieno a frutto il talento di Shelley Duvall: Tre donne, dramma psicologico del 1977 imperniato sull'ambiguo legame d'amicizia fra la timida Pinky Rose di Sissy Spacek, appena assunta in un centro termale nel deserto della California, e la sua loquace collega Millie Lammoreaux, la cui personalità al contempo estroversa ed egocentrica appare complementare a quella di Pinky. In Tre donne, la Duvall si cimenta in un'interpretazione di affascinante complessità, in cui la vivacità artificiosa della sua Millie è temperata dal senso di inadeguatezza e di solitudine che trapela da quello sguardo così luminoso e magnetico.
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Dare volto all'orrore: la Wendy di Shining
Ricompensata con il premio come miglior attrice al Festival di Cannes 1977, in Tre donne Shelley Duvall si muove in ammirevole equilibrio fra il ricercato manierismo di Millie e una fragilità che, nella seconda parte del film, sembra ingabbiare il suo personaggio, succube del rovesciamento dei rapporti di potere fra lei e Pinky. Se quello stesso anno arriva anche una fugace ma divertente apparizione in Io e Annie di Woody Allen, nei panni dell'eccentrica reporter musicale che definisce "un'esperienza kafkiana" la sua notte d'amore con Alvy Singer, sarà un altro gigante della settima arte, Stanley Kubrick, ad assegnarle uno di quei ruoli che già da soli basterebbero a consacrare una carriera: Wendy Torrance, la moglie dello scrittore in crisi impersonato da un elettrizzante Jack Nicholson, in Shining, adattamento dell'omonimo romanzo di Stephen King.
Una sfida inedita per Shelley Duvall, per la prima volta alle prese con il genere horror e con una co-protagonista che sarà ricordata come un'inedita versione dell'archetipo della cosiddetta screaming queen. Se già in precedenza l'attrice si era cimentata con donne dimesse e vulnerabili, in questo caso la fragilità di Wendy viene portata in primissimo piano, passo dopo passo, in un crescendo di tensione scandito proprio dall'espressività della Duvall: un'espressività perlopiù silenziosa, che si nutre di sommessi nervosismi, di atroci sospetti ricacciati dietro un precario sorriso, per poi esplodere con intensità dirompente al cospetto della furia selvaggia di Jack. Se Shining è passato alla storia come uno dei capisaldi dell'horror, al di là della maestria di Kubrick e della presenza scenica di Nicholson, gran parte del merito lo si deve a lei: un'attrice i cui occhi sbarrati, nel pallido ovale di quel viso inconfondibile, ci lasciano intravedere un abisso senza fine.