L'esordio alla regia della giovanissima regista Zoljargal Purevedash, al di là della sua natura, dei suoi pregi e dei suoi difetti e della sua riuscita complessiva, ha già segnato la storia del cinema mongolo. Se solo fossi un orso è stato il primo film della Mongolia in concorso ufficiale al Festival di Cannes, nello specifico nella sezione Un Certain Regard del 2023. Un grande vanto per un film che, dal canto suo, non ha fatto sfigurare per nulla la sua terra di origine, che è tra l'altro parte integrante della sua natura, complessa e stratificata seppur tenuta insieme da una storia semplice, ma incredibilmente universale. Probabilmente il titolo italiano, Se solo fossi un orso, si riferisce proprio alle contraddizioni di una Mongolia in conflitto tra la propria tradizione e le innovazioni introdotte dalla modernità, e quindi luogo di uno scontro che ha mietuto diverse vittime, tra le quali la famiglia protagonista della pellicola.
La frase "Se solo fossi un orso" indica la voglia di andare in letargo, di staccare dalla società, di ritirarsi dentro il proprio antro per poi uscire una volta terminato il riposo. Esemplificativo del senso del coming of age dal sapore neorealista diretto da Purevedash, in cui un ragazzo cerca la propria strada scoprendo che ogni passo avanti è segnato da un conflitto, con se stesso, il suo passato e la difficile realtà sociale in cui è immerso.
Straniero nel mio Paese
La famiglia di Uzii (Battsooj Uurtsaikh) si è trasferita dalla campagna per andare a vivere nella capitale della Mongolia, Ulan Bator, per cercare fortuna e un futuro migliore per il giovane ragazzo e i suoi tre fratelli. L'integrazione è stata però tutt'altro che facile, tant'è che la loro vita nei sobborghi si svolge all'interno di uno yurta, un'abitazione legata alla tradizione nomade del popolo mongolo. Una tenda immersa in una città del XXI secolo, come un puntino nero su in un foglio bianco.
La situazione non è infatti delle migliori, tant'è che dopo la morte del patriarca, la famigliola si è ridotta a vivere sotto la soglia di povertà, data anche la depressione della madre, che ha la forza solo di alzare il gomito e di imprecare contro il marito defunto e non quella di trovarsi un nuovo impiego. Per questo Uzii è costretto a mendicare attenzioni dai parenti più altolocati, dovendo mettere da parte un orgoglio eco di quello millenario del suo popolo, la cui forza prenderà il sopravvento, prima o poi, portando il ragazzo a ripudiare questo stile di vita.
Lo scontro con la madre è quotidiano e arriverà al culmine quando il giovane decide di partecipare ad una gara nazionale di Fisica su invito del suo insegnante che, sulla falsa riga del film cult di Gus Van Sant, lo invoglierà a cercare un futuro in questa sua incredibile predisposizione. La donna alla fine deciderà di tornare in compagna, fuggendo dalla città che ha "ucciso il marito", mentre il figlio rimarrà lì, cercando di prendere le veci dei suoi genitori e di inseguire il suo sogno. Due obiettivi che già è difficile portare a termine se sono separati, figuratevi se si vuole raggiungerli insieme.
Una fine indagine sociale
La matrice di Se solo fossi un orso è quella dell'indagine sociale. Straordinaria è la cura con cui si descrive la differenza tra la realtà esterna al focolare domestico e le abitudini di una famiglia la cui maledizione è proprio quella di non riuscire ad integrarsi nel suo nuovo ambiente. Tale solco lo si scava cinematograficamente sia con il calore che il tono legati agli ambienti e sia con la distanza delle relazioni tra i personaggi. Ciò che fa da collante è il protagonista, il cui sguardo, come tutti i coming of age che si rispettano, lo adottiamo fin da subito. Lui diventa la nostra navicella che ci porta a entrare ed uscire attraverso le dure realtà alle quali è legato.
La pellicola è sostanzialmente il racconto dell'eredità di un mondo passato che è morto nel tentativo di evolversi e che ha lasciato sola la generazione che invece doveva essere guidata in questa transizione incredibilmente traumatica. Il conflitto madre-figlio è sinonimo dell'impossibilità di un compimento sereno di questo processo, tant'è che l'unico modo con cui può risolversi è la disintegrazione dell'ambiente famigliare e la separazione definitiva. Il desolante inverno, che tinge di bianco la periferia più vicina ai monti, diventa il teatro sordido di un destino crudele che però diventa eco di quello di tutti coloro che abitano lì e non solo della famiglia presa in esame da Purevedash. Lo spaccato sociale regala degli scorci dal sapore neorealista in cui i ragazzi giocano a basket con le bottigliette d'acqua e i padri di famiglia diventano contrabbandieri di legna tagliata illegalmente per guadagnarsi da vivere. Del resto, in certe realtà non si hanno i soldi neanche per comprare il carbone.
Lo sguardo di Uzii
In mezzo a questo inverno freddo c'è lo sguardo di Uzii, portato in scena dal bravissimo protagonista, dimora di una fragile dolcezza che però non si può mai mostrare per paura di apparire come sintomo di una sconfitta e di una resa al destino beffardo. Ogni passo verso il suo obiettivo è una lotta per il ragazzo, sia con la madre che con la realtà e soprattutto con se stesso, dal momento che sente di aver il diritto e anche le potenzialità per sognare un futuro migliore, ma allo stesso è schiacciato dalla solitudine, dalla responsabilità dei suoi fratelli e, soprattutto, dall'orgoglio. Ciò che infatti lo blocca più di qualsiasi altra cosa è l'incapacità di accettare il suo status e quindi chiedere un aiuto, come se questo significasse la morte.
Ecco come "Se solo fossi un orso" diventa facilmente l'espressione di un desiderio per prendersi una pausa non solo dalle cose negative, ma anche da quelle che potrebbe significare la salvezza, come la Fisica studiata a scuola, croce e delizia di un geniale ragazzo che ha paura di fallire anche nell'unica cosa buona che la vita gli ha dato. Un ragazzo che sogna la mamma, la campagna e le radici della sua Mongolia, ma che da sveglio deve necessariamente misurarsi con il futuro.
Conclusioni
Nella recensione di Se solo fossi un orso vi abbiamo parlato dell'opera prima di Zoljargal Purevedash, un coming of age universale, commovente e intelligente che utilizza la vicenda personale e famigliare del suo giovane protagonista per portare alla luce la descrive la natura conflittuale della Mongolia. Un esordio maturo che attraverso una chiave di lettura che possa parlare a tutti fa un'analisi sociale approfondita di una società ancora divisa tra tradizione e contemporaneità.
Perché ci piace
- La regia è asciutta, ordinata, ma anche impattante.
- La scrittura adotta una chiave semplice per indagare a più livelli.
- La prova del protagonista è più che ottima.
- Non si scade mai nella retorica.
Cosa non va
- Se state cercando una storia innovativa questo non è il vostro film.