Con questa recensione di Scream, Queen: My Nightmare on Elm Street, documentario presentato al Torino Film Festival 2019 nella sezione After Hours, ci tuffiamo nel mondo di ieri che in realtà è anche quello di oggi: la questione spinosa dell'omofobia nell'industria cinematografica, nello specifico quella americana, e la difficoltà che essa può creare non solo agli artisti, ma anche al pubblico, a cui spesso viene negata la possibilità di riconoscersi nelle tematiche trattate sullo schermo (basti pensare alla recente controversia legata a Bohemian Rhapsody, che a detta dei più ha edulcorato la natura queer di Freddie Mercury). Un argomento delicato, che il film affronta con intelligenza e precisione, partendo da un episodio che sostanzialmente distrusse la carriera di un promettente giovane attore.
In principio fu l'incubo
Scream, Queen: My Nightmare on Elm Street esplicita il proprio punto di vista già nel titolo: si gioca sul termine scream queen, associato alle protagoniste femminili dell'horror, e sull'imperativo "Urla, queen", alludendo all'orientamento sessuale dell'attore Mark Patton, il cui "incubo" fu la partecipazione a Nightmare II: la rivincita.
Ma andiamo con ordine: siamo a metà degli anni Ottanta, e Wes Craven si è imposto come nuovo maestro del brivido con Nightmare - Dal profondo della notte, uscito nel 1984. Un anno dopo arriva il sequel, senza la partecipazione dell'autore che lo rinnega come farà per tutti i capitoli successivi. È un seguito anomalo, per due motivi: Freddy Krueger prende di mira non una ragazza, ma un ragazzo, stravolgendo la logica convenzionale della final girl; e si serve del giovane Jesse per commettere gli omicidi di turno. L'accoglienza in sala, al netto di un discreto successo commerciale, non è propriamente positiva, principalmente perché il film viola le regole del capostipite (nel secondo episodio Freddy riesce a uccidere le persone nel mondo reale).
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Particolarmente spinosa è la questione del presunto sottotesto omoerotico, tra sequenze sadomaso, una parentesi onirica in un bar gay e la performance di Patton, che in più di una scena "urla come una femminuccia". Lo sceneggiatore David Chaskin inizialmente nega di aver voluto inserire questi elementi, dando principalmente la colpa a Patton (secondo lui, la famosa scena dove Jesse balla e chiude un cassetto colpendolo con il sedere fu improvvisata dall'attore), e in un secondo tempo viene travisata una sua battuta sul fatto che il film dovesse essere omofobo anziché omoerotico. Solo diversi anni dopo, quando si manifesta un vero e proprio apprezzamento nei confronti del lungometraggio dal punto di vista queer, con molti che lo descrivono come il primo film gay che abbiano visto in sala, ammette di aver volutamente inserito quella componente nel copione, e di essere gay a sua volta.
Nel frattempo, però, Patton ha abbandonato il mondo del cinema, dopo che i suoi agenti gli avevano detto che non sarebbe mai stato credibile in un ruolo etero, anche se la sua omosessualità non era di dominio pubblico. Non si avranno sue notizie fino al 2010, quando gli autori del documentario Never Sleep Again, dedicato al franchise, lo rintracciano in Messico e lo intervistano. Da lì inizia un percorso riabilitativo, con Patton che partecipa alle convention di genere e si afferma come attivista per i diritti LGBT, donando gran parte dei suoi guadagni ad associazioni benefiche.
Trent'anni di sofferenza
Patton è al centro del documentario, anche se non mancano gli interventi di altre icone del franchise come Robert Englund, mitico interprete di Freddy. Il suo è un volto segnato dall'età (oggi ha 61 anni), dalla malattia (nel 1998 gli è stato diagnosticato l'HIV) e dalla frustrazione legata a quella che doveva essere l'opportunità di una vita: il suo primo vero successo cinematografico, dopo essere già stato diretto, a teatro e sullo schermo, da Robert Altman. Così non fu, e tramite interviste nuove di zecca e filmati d'epoca i registi ricostruiscono un clima tutt'altro che allegro: dopo che negli anni Settanta si era dato il via a una grande libertà sessuale, con l'arrivo dell'AIDS la mentalità collettiva si fece più puritana e paranoica (il punto di non ritorno, come ben sanno i cinefili, fu la morte di Rock Hudson, un tempo icona della commedia romantica). Patton, il cui amante di allora fu stroncato dal virus, si ritrovò al centro di una tempesta, soprattutto mediatica, dalla quale non uscì illeso: il nucleo emotivo del documentario è la sua storia personale, ma emerge anche il ritratto di un'intera società segnata dall'omofobia, al punto che in quel periodo il principale epiteto denigratorio nei confronti degli omosessuali, oggi causa di licenziamento (vedi quello che accadde a uno degli attori di Grey's Anatomy), era usato senza problemi anche nei film destinati a un pubblico giovane.
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Il tutto si ricollega anche alla questione storica dell'horror, e del cinema di genere in senso più ampio, come elemento sovversivo a livello socio-politico, spesso in anticipo sui tempi: si ragiona infatti sul contrasto tra le final girls, sovente raffigurate con tratti più mascolini (basti pensare a Ellen Ripley), questo inedito final boy, che invece si atteggiava in modo più femminile. Un ragionamento che mette in evidenza anche il valore del cinema del brivido come esercizio artistico che unisce, dando una voce agli emarginati. Da quel punto di vista, la rivalutazione del secondo Nightmare è assolutamente lecita, fermo restando che sul piano puramente cinematografico siamo quasi agli antipodi dei livelli di Craven, e la storia di Mark Patton merita di essere raccontata, tramite un documentario che funge da happy end per un racconto complessivamente triste che ha tormentato il suo protagonista per tre decenni, riducendo quasi a nota a piè di pagina ciò che già allora era un ruolo a suo modo rivoluzionario all'interno della formula trita e ritrita dello slasher. A distanza di 34 anni il suo urlo, allora oggetto di scherno (cosa che in parte, purtroppo, è anche oggi, a causa di commenti offensivi su YouTube), è un gesto liberatorio, la rivalsa di un attore incompreso la cui principale sfortuna fu quella di trovarsi letteralmente nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Conclusioni
Giunti al termine della recensione di Scream, Queen: My Nightmare on Elm Street si è pervasi da una certa malinconia, grazie al toccante e straziante resoconto di Mark Patton che ripercorre gli anni più importanti e al contempo più distruttivi della sua carriera. Ne emerge un ritratto prezioso e intelligente di un problema che ancora oggi esiste a Hollywood, e al termine della visione viene anche una certa voglia di rivedere Nightmare II.
Perché ci piace
- L'argomento è coinvolgente e molto attuale.
- La rilettura accademica di Nightmare II è molto affascinante.
- Le interviste sono illuminanti e a tratti strazianti.
Cosa non va
- Chi non conosce il franchise di Nightmare potrebbe non cogliere alcuni elementi.