La realtà è trasfigurata in Rossosperanza. L'opera prima della regista Annarita Zambrano è un lavoro enigmatico presentato nel concorso di Locarno 2023 che, a una prima visione, può lasciare il pubblico perplesso. È la stessa autrice a svelarci che, dietro la patina grottesca, quel che vediamo nel film è in gran parte accaduto e Villa Bianca, sorta di casa di rieducazione per figli di famiglie benestanti, esiste davvero. Rossosperanza raccolta la storia di un gruppo di adolescenti dai comportamenti eccessivi e problematici, figli di quella borghesia che occupa posizioni di potere. Nel tentativo di raddrizzarli, i genitori li affidano ai gestori di Villa Bianca, grande casa in campagna in cui i ragazzi vengono sottoposti a un percorso di rieducazione.
"Conosco questo posto perché alcune persone a me care l'hanno frequentato" esordisce Annarita Zambrano. "Si tratta di una situazione delicata, questo è un luogo ufficioso dove ho incontrato una serie di persone che erano legate al potere. Erano figli sovversivi del potere, per questo mi sono concentrata su di loro. Perché il mio è un film contro il potere e contro la violenza strisciante". Ripensando a quel luogo, la regista specifica: "La violenza di quella realtà era quotidiana perché i ragazzi sono senza filtri, si insultano, si prendono a male parole. Quello è il loro modo per comunicare. La violenza degli adulti è più sottile, ma è devastante".
L'immoralità e la violenza della classe dirigente
Ambientato alla fine degli anni '80, Rossosperanza contiene riferimenti più o meno espliciti a personaggi di potere dell'epoca. Uno dei tre padri, tutti interpretati da Andrea Sartoretti, è il medico del Papa e c'è perfino un riferimento piuttosto esplicito a Gianni Boncompagni. "Era il capo della tv, ma le sue trasmissioni erano immorali. Non capisco perché non lo dica più nessuno" esclama la regista. "Il potere usava la parola per nascondersi. 'Non dire fascista, che parola grossa'. Questa è una violenza compiuta attraverso le parole, che sono 'scelte' per essere edulcorate. I ragazzi sono figli di questa classe sociale, ne conoscono perfettamente i meccanismi, ma sono al di fuori delle convenzioni quindi usano una violenza verbale molto potente".
Per rappresentare questa realtà "ristretta" Annarita Zambrano ha utilizzato delle ottiche particolari, ottiche 2/35 che poi ha tagliato per mostrare come il potere ti ingabbia e ti costringe. "Più ti reprimono, più esplode la voglia di libertà, che venga dalla musica, dall'arte, dalla ribellione. Questa è una legge naturale" specifica Zambrano. "Per mettere in scena questi personaggi ho scelto attori dai tratti particolari. Marzia e Alfonso hanno un fisico simile, soffrono di problemi alimentari e capisci che hanno un problema di accettazione del corpo. Sono entrambe vittime di violenza, lei probabilmente da parte del padre e dai suoi amici, ed è diventata ninfomane, Zena e Vittoriano sono osservatori, stanno in disparte, parlano pochissimo. Volevo mettere in scena personaggi che avessero le mie stesse ferite".
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Un cast di outsider
Con molta sincerità, Annarita Zambrano ammette di conoscere a fondo i personaggi che racconta perché lei stessa si è sentita un outsider, sempre estranea alla classe sociale a cui apparteneva. "Al Giulio Cesare ero isolata, stavo antipatica a tutti, i professori mi prendevano di mira" spiega la regista. "Percepivo un muro tra me e gli altri. I professori abusavano del loro potere attraverso violenza verbale e umiliazioni nei confronti degli studenti. Conosco persone che poi si sono impiccate. Sono sempre stata una outsider finché non ho incontrato questi matti che mi hanno dato una casa, che mi hanno riconosciuto".
La conclusione di Zambrano è pessimistica. La regista chiarisce che gli outsider con cui ha legato lei "sono un'eccezione. Per lo più, i figli degli uomini di potere hanno sposato il potere a loro volta. Sono diventati dirigenti amorali come i loro padri. Per questo il film si chiama 'Rossosperanza'. Perché io immagino di sterminarli. Ma solo nel film".