Rosso, come il colore dello smalto che la madre, da sempre schiva e riservata ("adorava le perle e lo smalto trasparente"), gli chiese per farsi bella quando scambiò per amore la gentilezza del suo fisioterapista; Istanbul, come la città che gli ha dato i natali e che lo ha visto andare via ben quarantuno anni fa. Rosso Istanbul è il titolo dell'ultimo film di Ferzan Ozpetek, tratto dal suo romanzo autobiografico del 2013, una pellicola che per alcuni aspetti ci restituisce un cinema di atmosfere e suggestioni, tremolii e solitudini, l'Ozpetek degli esordi che torna a girare in Turchia esattamente venti anni dopo Il bagno turco.
Ne viene fuori un'opera strana, un ibrido fra il melò e un memoriale malinconico alla ricerca delle proprie origini perdute, un puzzle surreale che ricompone ricordi, volti e fatti attraverso il via vai dei personaggi in scena, che si incontrano, si sovrappongono e si confondono restituendo ognuno un pezzo della vita del regista turco. A partire dal protagonista Orhan Sahin, un tempo scrittore e ora editor, tornato a Istanbul dopo 20 anni di assenza per aiutare il regista Deniz Soysal a portare a termine la scrittura del proprio libro.
Dopo la misteriosa scomparsa di Deniz, Orhan si ritroverà prigioniero dei ricordi rimossi e sempre più dei legami con i famigliari e gli amici del regista, che sono anche i protagonisti del libro.
La vita e le emozioni che si era lasciato alle spalle torneranno a chiedergli il conto e non potrà sottrarsi ad un viaggio che lo porterà indietro nel tempo alla scoperta di se stesso.
Personaggi in cerca d'autore
Nell'undicesimo film di Ozpetek tornano alcuni elementi cari alla sua poetica: la memoria, la scoperta, l'accettazione del diverso, la rottura degli equilibri nella quotidiana ordinarietà della vita, la coralità della narrazione dove ogni protagonista assume le sembianze di un personaggio 'in cerca d'autore'.
E in Rosso Istanbul, in particolare nella seconda parte del film, il regista de Le fate ignoranti porterà agli estremi quest'operazione con un gioco di rimandi e identificazioni eccessivo che ricorderà molto il vagabondare dei fantasmi di Magnifica presenza, ma che qui, complici dialoghi a tratti inverosimili e un doppiaggio posticcio, rischia di risultare forzato e di confondere lo spettatore.
Saranno queste figure (interpretate da un cast eccellente composto interamente da attori turchi), che si agitano in primo piano, a prendere il sopravvento a un certo punto della storia e a guidare le sorti del protagonista, quasi a voler prendere in giro lo stesso Deniz, che prima di sparire nel nulla dichiarerà: "Sono io il regista, decido io chi sono e cosa fanno quei personaggi". Niente affatto, perché da quel momento le storie del suo libro si imporranno sulla realtà di Orhan e la modificheranno in maniera irreversibile costringendolo alla presa di coscienza e a rivolgere lo sguardo ad un passato sopito. L'incanto davanti alla splendida Neval (Tuba Büyüküstün) che irrompe con la furia della bellezza a rispolverare desideri taciuti, il misterioso Yusuf (Mehmet Günsür) e l'incombenza di un'assenza improvvisa determineranno le azioni di Orhan trasformandolo lentamente in "uno straniero in patria".
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Istanbul, tra mito e realtà
Quel che resta di Rosso Istanbul è però la forza dei luoghi e il potere suggestivo delle immagini: una casa in procinto di svuotarsi, le foto ingiallite, le tavole imbandite, un vecchio negozio di orologi, le panoramiche sul Bosforo con cui il film si apre e si chiude. In questo Ozpetek è maestro e riesce con il tocco che gli appartiene a sublimare Istanbul, i suoi angoli di cielo e di mare, catapultando lo spettatore in un città mutante immersa in una tensione che non si vede ma certamente si sente.
Merito anche di una colonna sonora che mescola sapientemente le musiche originali di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, la nostalgia di In dieser Stadt e i rumori di sottofondo: il logorio delle trivelle che scavano, estraggono, distruggono per fare spazio a nuove costruzioni, le voci confuse delle madri del sabato che dal 1995 si incontrano instancabili ogni sacrosanta settimana a piazza Galatasaray per protestare e chiedere conto dei propri figli scomparsi dopo l'ondata di arresti per mano della polizia, il bofonchiare delle navi su quel tratto di mare dai risvolti mitologici, dove gli opposti si incontrano in una eterna sospensione del presente, e in lontananza il richiamo alla preghiera dei muezzin. Istanbul diventa così i suoi rumori, il rosso dei tramonti, le sue gru, i grattacieli, è un istante denso della sua storia passata e presente, o per usare una delle battute del film "una grandissima puttana: non ha mai respinto nessuno". È lei la vera protagonista del ritorno di Ozpetek, sospesa, sfuggente, un affresco proustiano che si impone sull'intera storia compensando i momenti meno riusciti.
Movieplayer.it
2.5/5