Cinema giovane oggi in concorso a Roma 2013. Dopo l'italiano Take Five di Guido Lombardi è la volta del cileno Volantin cortao (titolo internazionale Cut Down Kite, che tradotto letteralmente sia dal cileno che dall'inglese sta per 'aquilone tagliato'), dramma adolescenziale che racconta la storia di Paulina, ventenne assistente sociale che fa tirocinio in un istituto di riabilitazione per ragazzi disadattati. E' qui che incontra Manuel, giovane criminale sedicenne, con il quale inizia un rapporto di amicizia che la spinge a mettere in discussione le sue certezze e la sua professione. Per la ragazza è l'inizio di una nuova vita, libera dalle convenzioni e dalla routine, e d'improvviso anche il suo punto di vista sul mondo e su una città che non le è mai appartenuta, devastata dalle disuguaglianze sociali e dai pregiudizi, cambierà radicalmente gettando nuove incertezze sul futuro. Questo è quello che ci hanno raccontato i due registi cileni Diego Ayala e Anibal Jofré, senza dubbio i più giovani registi del concorso di Roma 2013, in conferenza stampa.
Come nasce l'idea di realizzare questo film a metà tra documentario e fiction incentrato sulla storia di due giovani cileni ribelli e senza punti di riferimento?Anibal Jofré: Il film nasce come progetto universitario, una sorta di film collettivo a cui abbiamo lavorato insieme ai nostri insegnanti di cinema che ci hanno consigliato e guidato nella realizzazione. Non abbiamo molta esperienza sul campo ed abbiamo chiesto a loro di aiutarci a far trasparire il più possibile il realismo della storia e il quotidiano dei due personaggi protagonisti. Volevamo realizzare un film che fosse vivo e sincero, che rispecchiasse la vitalità e le diversità che offre oggi la nostra città. Il film tratta temi importanti come la microcriminalità e il recupero di minori che hanno avuto a che fare con le periferie più profonde della città e con la delinquenza. Perché avete scelto questo argomento?
Diego Ayala: Sono sempre stato attratto dal mondo della criminalità delle giovani generazioni del Cile di oggi, mi attirava anche molto l'idea di raccontare la Santiago di oggi, una città moderna attraversata da treni, metropolitane, autobus e tanto traffico, e poi il fenomeno dei musicisti e i cantanti di strada ma soprattutto il mio intento era quello di conoscere e capire le vere storie di vita di questi ragazzi che si approcciano col mondo dei piccoli crimini e delle comunità di recupero. Quando si parla di loro è facile imbattersi in stereotipi e in approcci di tipo paternalistico, ed è per questo abbiamo voluto aprire la porta e guardare da vicino ma anche con discrezione le loro vite.
Che città è oggi Santiago del Cile? Anibal Jofré: E' una metropoli in cui vige una forte apartheid economica, tutto è privatizzato, dalla scuola, alla sanità passando per gli alloggi e ogni quartiere rappresenta una ben precisa classe sociale. Ognuno pensa a sé alla sua famiglia senza preoccuparsi minimamente a quel che sarà del Cile di domani.
E' molto interessante la metafora dell'aquilone alla deriva che avete voluto suggerire nel titolo, come vi è venuta l'idea di un titolo così poetico?E' un gioco che si fa in Cile e che è molto diffuso, ad un certo punto si tagliano i fili degli aquiloni per vedere dove il vento li trascina una volta liberi di volare. Una metafora che ci è sembrata calzante per entrambi i personaggi di Paulina e Manuel, che non hanno alcuna idea di quello che sarà il loro futuro nonostante appartengono a due classi sociali ben distinte. In quest'ottica il girovagare di Paulina può essere visto come una metafora della rottura delle barriere sociali che dividono la città e il paese intero? Diego Ayala: Paulina e Manuel hanno una cosa importante in comune e cioè sono degli outsider, entrambi vivono come estraniati dal loro mondo, senza contatti con la realtà in cui sono cresciuti. Vagano nella città alla ricerca di identità e di risposte ma soprattutto alla ricerca di un posto nel mondo che sia diverso da quello che la società ha loro riservato fino a quel momento. Nel film sembra quasi che gli attori siano stati lasciati liberi di improvvisare e che molte delle scene siano 'rubate' alla quotidianità della città. Quanto questo film è documentario e quanto è finzione? Anibal Jofré: Tutti i dialoghi sono spontanei perché agli attori noi abbiamo consegnato la sceneggiatura solo come traccia, una sorta di road map per mantenere la sequenzialità della narrazione. Non ci siamo mai spinti oltre, non abbiamo mai detto loro cosa fare o come comportarsi in ogni singola scena ma ognuno di loro ha ricevuto la suo script personale. Penso che usare i mezzi del documentario nella fiction ci ha aiutato a conferire al film un realismo e far sentire allo spettatore come se si trovasse di fronte a fatti che stanno realmente accadendo e non ad un film. Anche per questo motivo abbiamo ottenuto un girato molto lungo, per avere in fase di montaggio la possibilità di scegliere la soluzione migliore. Il finale aperto è volontario? Perché nel finale non viene mostrato nulla di quello che succede ai due ragazzi dopo il gesto fosse di estrema ribellione di cui si rendono protagonisti?
Abbiamo lasciamo l'interrogativo aperto perché il nostro obiettivo non è quello di dare risposte bensì quello di suscitare delle riflessioni e degli approfondimenti. Ogni questione che riguarda il futuro è in un certo senso troppo avanti per noi, ci siamo limitati ad analizzare il presente e a interrogarci su quello che sta accadendo ora nel nostro Paese.