Ai giovani attori raccomanda di lasciarsi governare dalle emozioni, "fate in modo che si muovano, lasciatele esplodere, non le trattenete, fate qualcosa fuori dalle regole". Come del resto ha sempre fatto lui durante le sue ormai storiche incursioni televisive, quando "le emozioni mi travolgevano e allora le facevo sfogare fino in fondo per vedere cosa veniva fuori: urlavo, prendevo tutti in braccio e mi buttavo a terra". "Ero come un leone in gabbia che aveva bisogno di uscire", confessa oggi a distanza di anni Roberto Benigni durante la masterclass a Venezia 78 che lo ha premiato con un Leone d'Oro alla Carriera. Eppure si sente la persona meno adatta a dare consigli, anche se su uno non ha dubbi: seguire il proprio fuoco. "Quello dell'attore è un mondo fatato, ma in cui nessuno ti regala niente, oltre a una grande passione l'arte richiede che il fuoco rimanga sempre accesso. Ci vuole quindi la consapevolezza di stare per entrare nel più grande luna park del mondo, ma pieno di terrore e fatiche. È un mestiere faticosissimo e bisogna lavorare tanto a non essere se stessi. Vi sentirete spesso dire: 'Sii, spontaneo'. È una grande cavolata, dovete invece ricordare di fare finta, il nostro è un lavoro di falsità, non a caso si chiama finzione".
I maestri
Burattinesco, giullare e cantastorie illuminato ha fatto del proprio corpo e di un linguaggio estremamente libero il principale strumento della sua comicità dissacrante, soprattutto agli esordi, molto prima dell''Oscar per La vita è bella, quando si lanciava ad esempio in deliranti sfide in ottava rima con Guccini. Erano gli anni che sarebbero poi culminati nell'incontenibile litania di Berlinguer ti voglio bene, "una sequenza keatoniana, completamente improvvisata, una cornucopia di tutto il profondo delle carni, delle viscere che uscì fuori così e non finiva mai". I suoi maestri? Chaplin, Tati, Keaton che Benigni non esita a definire "immagini, sensazioni, sentimenti irraggiungibili, modelli a cui rifarsi. Sono gli 'elementi' del cinema come il mare e il cielo lo sono della terra".
"Chaplin è grande come Michelangelo, - afferma - ha inventato tutti i gesti anonimi del mondo, nella sua maschera tutti hanno trovato il proprio principe. È come leggere il Don Chisciotte di Cervantes: come si può essere sempre ostinatamente così poetici e far ridere insieme? Più lo leggi, più ridi e più senti una poesia immensa, qualcosa che travalica". Il suo primo incontro con Chaplin fu a 14 anni, quando vide La febbre dell'oro "in un cinema della montagna pistoiese, non avevo neanche i soldi per entrare, credo di aver saltato il bigliettaio, ne uscii muto come i greci di fronte alle cose sacre. Non capivo da dove venisse questo dono, è un film ancora estremamente moderno come il suo modo di girare".
Luci della città, Tempi moderni, Il grande dittatore "sono inallontanabili, inobliabili, ti rimangono vicini. - spiega estasiato - vederli è come assistere a un miracolo. I primi piani del comico sono quasi un atto pornografico, sono carichi di erotismo e di vita e in Chaplin sono rarissimi e molto misurati. Flaubert diceva sempre che lo scrittore deve essere in ogni luogo ma senza farsi vedere, proprio come la macchina da presa nei film di Chaplin: non la si sente e quando la si avverte è come l'occhio di Dio", conclude. Lo definisce "un aristocratico, un conservatore, un reazionario: quando succede qualcosa di rivoluzionario è sempre suo malgrado, però lo fa accadere. È un felino" e ricorda di quando Fellini lo chiamava "l'Adamo del cinema".
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L'amore per Fellini e Buñuel e l'amicizia con Jarmush
Gli piacciono i registi spirituali, con una loro religiosità e un sentimento come Fellini ("un miracolo della natura, era come stare in un incendio, bruciava tutto") e Buñuel: "Entrambi si esprimono con il linguaggio del sogno. Riesce solo a loro, ne Il fascino discreto della borghesia ad esempio è il sogno che parla, è come se entrassimo dentro noi stessi e al nostro inconscio, tutto si ingrandisce, anche le nostre bassezze, la nostra parte orrida e questo non piace molto. Ecco perché i grandi registi non vanno mai di moda".
Parole anche per Giuseppe Bertolucci che rappresenta "la persona a cui devo di più, mi adottò quando arrivai a Roma, si innamorò delle mie radici e dei racconti che facevo, barbari, meravigliosamente violenti e poetici, tragici". Nella lunga chiacchierata trova spazio poi il ricordo dell'amicizia con Jim Jarmush (che lo diresse in Taxisti di notte) conosciuto negli anni '80: "Eravamo in giuria al festival di Salsomaggiore, amavamo gli stessi film e siamo stati insieme dalla mattina alla sera". Sono ancora buoni amici, "l'ho sentito dopo il Leone d'Oro, mi ha mandato un messaggio in italiano che diceva: 'È stato premiato lo scemo del genio'".
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Il mestiere dell'attore
Recitare per Benigni non è per niente un gioco, ma un lavoro serio: "Non significa imitare, quando si recita si entra in un altro mondo, è un mistero per cui con un gesto o con un bavero alzato diventi qualcun altro". Così come fare il regista "è la fatica più grande del mondo, si porta dietro il peso terrificante delle scelte e di donare agli altri il sogno. Non sapremo mai quanto terrore della morte e quanta fatica ci siano dietro il gesto del trapezista che fa un volo e poi si inchina. Il lavoro del regista è proprio questo".
Con l'oggi forse la sfida più grande: "Una volta pensavo tutto il giorno al cinema e alle storie, sentivo tante idee, adesso un po' meno, comincio e poi mi fermo. Il tempo è padrone della nostra psiche, bisogna assecondarlo e non fargli resistenza". Gli piacerebbe fare qualcosa su Dante, al di là dello spettacolo, "ma è irraggiungibile, intoccabile".