Prendete le indifese principesse in pericolo, rinchiuse dentro isolate torri medievali e dimenticatele. Tenete a mente i possenti avventurieri di action movie e giochi d'azione e scordateveli. Questo è quello che successe esattamente vent'anni fa quando, nell'ottobre del 1996, su Sega Saturn approdò Tomb Raider, rivoluzionario videogame che, assieme ad un gameplay capace di conciliare l'adrenalina dell'avventura alla necessità di materia grigia per la risoluzione di enigmi, creò quella che sarebbe diventata un'icona pop riconosciuta in tutto il mondo: Lara Croft. Un videogame totalmente incentrato su una protagonista donna (un'agile e sfrontata archeologa), un titolo dedicato solo e soltanto ad un personaggio che di lì a poco avrebbe trasceso se stesso, trasformandosi in un testimonial dell'arte videoludica, al pari di Sonic, Super Mario, Crash Bandicoot e Solid Snake. Lara Croft frantumerà il limite dello schermo e del pixel per incarnarsi in persona quasi vera, parte di un immaginario che la adotterà su copertine di riviste, nomi di strade, canzoni e pellicole cinematografiche.
Lo scalpore iniziale è figlio dei tempi e del contesto, perché quello che oggi giustamente appare come norma, riscritta da eroine di narrazioni letterarie, cinematografiche e seriali, vent'anni fa, in un settore ancora inesploso su larga scala come quello dei videogiochi, apparve come eccezione alla regola. La regola era il nerboruto eroe o l'affascinante spia, non di certo una donna letale sia con la pistola che con l'aspetto, per di più dotata di grande perspicacia e coraggio. Lara Croft non conosce mezze misure, è nata per sorprendere, creata per colpire lo sguardo e rivoluzionare il senso comune. E sì, non lo nascondiamo, lo ha fatto anche grazie all'errore più riuscito di sempre: ovvero la mano del disegnatore che per sbaglio ne alterò le generose forme. E così, nonostante lo spigoloso pixel, la bella archeologa britannica viene ricordata soprattutto per le sue curve. Da allora molto è successo e tanto è cambiato; la serie Tomb Raider ha conosciuto la gloria e poi, causa ingordigia dei suoi sviluppatori, caduta nel baratro e nell'assuefazione a causa della sovraesposizione mediatica e, molto più semplicemente, di giochi deludenti.
Dopo tante capriole ben riuscite, il capitombolo di Lara è inevitabile, agevolato anche dai due deludenti film con Angelina Jolie che forse nemmeno lei ricorda con piacere. E così del fenomeno rimane l'eco, dell'icona uno sbiadito ricordo. Almeno sino a quando, così come il cinema, anche il mondo dei videogiochi scopre il piacere e l'utilità del reboot, del reset totale di storie, vite e personaggi. La nuova Lara, da sempre appassionata di storie antiche e leggende, imita il mito della fenice e rinasce nel 2013 con Tomb Raider, seguito dal recente Rise of The Tomb Raider. Ed è da qui che vogliamo partire, scoprendo cosa si è alzato dalle ceneri della formosa icona armata di pistole e passione per l'impossibile.
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Chirurgia etica
Ogni buon avventuriero, dopo aver esplorato i luoghi più remoti e i posti più angusti, punta sempre lì, verso la luce in fondo al tunnel. Per Croft non è stata solo questione di sforzo fisico, ma di rivoluzione estetica, prima che narrativa. L'archeologa riproposta dai ragazzi di Crystal Dynamics è stata rinnovata nello spirito e nel corpo, cambiando il punto di vista del giocatore nei suoi confronti. Lara non è più una supereroina letale ma una ragazza alle prime armi (nel vero senso della parola), spaesata e impaurita, non più donna dalle forme abbondanti e dai lineamenti marcati, ma una più gracile fanciulla costretta a crescere pur di sopravvivere. Insomma, la nuova Lara è maggiorata solo nel coraggio, proprio perché l'inesperienza non riesce comunque a inibirne lo spirito indomito. Così il gameplay racconta qualcosa di diverso dalle solite peripezie da atleta provetta e ci mostra un personaggio che arranca, ansima, cade per poi rialzarsi a fatica, perennemente in affanno. Un aspetto anche sin troppo evidenziato e quasi stucchevole, dovuto al tono più dark e maturo (con tinte gore) scelto dagli autori per la loro rivoluzione.
Ma se nel reboot Tomb Raider l'avventura iniziava per caso (con un naufragio), nel secondo capitolo Rise of The Tomb Raider la giovane archeologa decide di cimentarsi in una folle ricerca che porta alla Sorgente Divina, fonte di vita eterna e per questo protetta da antichi popoli e bramata dalla Trinità, organizzazione segnata dal fanatismo religioso. E la particolarità etica del gioco sta proprio qui: nella motivazione che spinge Lara all'azione, tutt'altro che eroica e altruista. Al centro del suo credo tutto personale c'è il rimorso per il padre scomparso, un padre morto in nome di quella meta mistica e irraggiungibile, morto in solitudine perché screditato e ritenuto folle da tutti. Tutti tranne la sua bambina. E per Lara il bene del mondo e la lotta contro il male vengono dopo tutto questo.
Tra rimpianti e paradossi
Seguire le orme, prima di tutto. È questa la regola d'oro che Rise of The Tomb Raider induce a rispettare. Per quanto le aree di gioco siano ampie e permettano deviazioni dalla storyline principale grazie a missioni secondarie e tombe nascoste in cui investire pura materia grigia, Lara vive sui binari del dovere, costretta a seguire il desiderio incompiuto di suo padre. Nel corso del racconto, che tra corse, sparatorie e assedi da respingere, ogni tanto ha bisogno di fermarsi a riflettere attorno ad un fuoco, la protagonista rimugina di continuo, non sorride mai, risultando afflitta dal desiderio di restituire al genitore una soddisfazione postuma. Anche per questo il gioco manca totalmente di spensieratezza e di ironia (il che la discosta dal facile paragone con Indiana Jones), per prendersi molto sul serio. A livello narrativo questo legame di sangue viscerale è senza dubbio l'aspetto più interessante e meglio esplorato dal nuovo Tomb Raider; un gioco che si dimostra per lo più un'onesta avventura avvincente, con doverosi ma non sconvolgenti colpi di scena, dedita all'azione spettacolare e gestita da una regia iper dinamica e da un sonoro dalla forte caratterizzazione cinematografica. Tutto il resto risulta una carrellata di tematiche già viste tante volte altrove, sin troppo rispettose del genere avventuroso con qualche divagazione verso il mistero.
In questo senso Lost torna ad imporsi come principale fonte di ispirazione degli sviluppatori (lo era già stato per il primo capitolo) tra comunità chiamate a proteggere antichi splendori, custodi immortali e un paesaggio ostile in cui sopravvivere. Un tasto, quello della sopravvivenza, che diventa il più dolente di tutti, perché durante tutto il corso di Rise of The Tomb Raider non si fa che raccogliere materiale, pelli animali, bacche, legno, ma non si ha mai la sensazione della fame e del pericolo vero e proprio. Colpa anche di una Lara che per quanto giovane, incauta e in apparenza fragile, si trasforma in una macchina di morte capace di distruggere contemporaneamente interi eserciti. Per sposare un approccio più introspettivo, avremmo preferito meno bombe e più raziocinio, nessun mitra e solo un arco e qualche freccia, l'arma prediletta dalle nuove eroine. Non è vero, Katniss?
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Corpo da guerriera, spirito da fanciulla
A fronte di questo paradosso che inficia il valore narrativo del titolo, va detto che l'approccio al gioco lascia spazio anche per meccaniche più raffinate del grossolano sparatutto spietato e sanguinario. Al di là di nascondigli e silenziose scelte stealth, il gioco dà il meglio di sé negli anfratti più nascosti, ovvero dentro elementi secondari disseminati e celati nella vasta mappa siberiana. Grazie ad una resa scenica realistica e ispirata, il giocatore è invitato a illuminare caverne e profanare antiche tombe, soprattutto perché molti racconti sul mondo di gioco (storie dei popoli, diari, confessioni dei personaggi) sono stati riposti proprio qui. Rise of The Tomb Raider fa affidamento sulla curiosità del giocatore, si appiglia alla sua voglia di sapere di più oppure no, cercando di capire se siamo o meno veri esploratori, mossi da sete di sapere o da fame di proiettili. Lara, dalla sua, ha tempra da guerriera ma conserva nel suo cuore il monito di Richard Croft, ovvero il dono della curiosità e della meraviglia.
Così la vecchia Lara prosperosa viene spazzata via da questo spirito da fanciulla sempre ben predisposta a sfidare l'ignoto. Tutti fattori che fanno del nuovo Tomb Raider un brand rinnovato, ma soprattutto consapevole di quello che è avvenuto nel mondo del cinema. Il titolo di questo secondo capitolo, il bisogno di ripartire dalle origini, il tema del trauma paterno e la protagonista orfana fanno pensare subito al Batman di Christopher Nolan, da cui sicuramente è stato ripreso qualche elemento basilare. E sull'esempio del Cavaliere Oscuro, non potrà certo mancare un terzo capitolo e, soprattutto, una nuova incarnazione cinematografica che si baserà su questa Lara, rinnovata nell'aspetto e più interessante nella morale. Voci danno per favorita Daisy Ridley, folgorazione di Star Wars: Il risveglio della forza, ma chi scrive è suggestionato da un altro volto: Lauren Cohan, la Maggie di The Walking Dead. Di sopravvivenza, fatica e nervi saldi dovrebbe già saperne qualcosa.