Crepuscolo a Oriente
A Hollywood, la pratica di proporre rifacimenti di film orientali, perlopiù grandi successi di botteghino nei paesi d'origine, è stata comunissima ed economicamente redditizia in tutto il decennio passato. Negli ultimi anni, tuttavia, l'industria hollywoodiana sembra aver rallentato molto tale tendenza, forse per aver spremuto a sufficienza, in parte cooptandone gli autori, tutto quel bacino di idee e di storie: si è anzi iniziata ad affacciare, seppur timidamente, la tendenza opposta, quella per cui le cinematografie del sud-est asiatico ripropongono, per il loro pubblico, i blockbuster occidentali. L'hongkonghese Connected di Benny Chan, e il cinese What Women Want di Chen Daming, remake rispettivamente di Cell e dell'omonima commedia interpretata da Mel Gibson, sono stati due degli esempi più emblematici del nuovo trend. Ora, è un progetto ben più ambizioso, se non altro per l'importanza del prototipo, ad essere proposto agli spettatori asiatici: il regista nippo-coreano Lee Sang-il, infatti, ha reinterpretato addirittura un classico degli anni Novanta come Gli spietati di Clint Eastwood, reambientandone la storia nel Giappone di inizio era Meiji.
La storia, che ha luogo precisamente nel 1880 nell'isola di Ezo (l'attuale Hokkaido) ricalca da vicino quella del film originale: Jubei Kamata, un tempo guerriero spietato al servizio del decaduto Shogun, ha sepolto per sempre la spada dopo la morte della moglie, e vive una tranquilla esistenza da contadino, insieme ai suoi due figli. L'uomo viene raggiunto da un vecchio compagno d'armi, che gli propone una redditizia missione: si tratta di uccidere due giovani del posto, colpevoli di aver sfregiato una prostituta in un bordello locale. Sui due uomini, trattati con indulgenza dal nuovo capo della polizia, viene messa una taglia dalle altre donne del bordello, che chiedono giustizia per la violenza subita dall'amica. Jubei, nonostante abbia giurato sulla tomba di sua moglie di non usare mai più un'arma, viene indotto ad accettare l'offerta a causa delle difficoltà economiche in cui versano lui e i figli: ma l'uomo dovrà confrontarsi con una società radicalmente diversa da quella che conosceva, in cui la violenza non conosce più alcun codice d'onore, e in cui potere significa ingiustizia e sopraffazione. Se la riuscita di un remake può valutarsi, principalmente, da come il regista riesce a reinterpretare, facendolo proprio, il soggetto originale, Unforgiven non può rientrare certo tra i rifacimenti che lascino il segno. La trasposizione del dolente soggetto eastwoodiano, un'ode a una Frontiera colta nel momento del suo tramonto, nel contesto dell'analoga dissoluzione della società dei samurai, viene effettuata in modo corretto, ma anche piuttosto anonimo. Tra la strada del trasporre scenografie e ambienti originali in un contesto più riconoscibilmente nipponico, e quella del riproporre tali ambienti minimizzandone le differenze, il film sceglie la seconda strada: una scelta estetica che rimanda agli eastern western degli anni '60 e '70, quelli targati Nikkatsu, in cui le praterie del vecchio West diventavano le distese rurali del nord del Giappone, e alla lotta con gli indiani si sostituiva quella con gli Ainu, aborigeni abitanti l'isola di Ezo. Anche qui, il tema del razzismo verso gli Ainu entra in primo piano: col personaggio della defunta moglie del protagonista, appartenente a tale etnia, e con quello del giovane mezzosangue, equivalente dell'aspirante pistolero del film originale. Quest'ultimo viene qui trasformato in un Kikuchiyo de I sette samurai sui generis, chiaramente debitore al personaggio interpretato da Toshiro Mifune nel suo fare anarchico che cela un fondo di amarezza. Al di là di tali novità introdotte dallo script, Unforgiven non presenta però particolari elementi che lo distinguano, facendone risaltare la specificità, da un originale che restava particolarmente legato al suo contesto di produzione. Il problema è anche storico: nel 1992, un film sul tramonto della Frontiera (opera di un attore iconico come Eastwood) non poteva non restare impresso; nel 2013, il tramonto della società dei samurai è già stato celebrato e approfondito, in pellicole complessivamente più riuscite. Certo, Ken Watanabe nel ruolo che fu di Clint è carismatico e intenso, probabilmente il miglior interprete che si potesse scegliere per un personaggio di questo tipo; molto efficaci sono anche Akira Emoto nel ruolo del suo intenso compagno, e il villain interpretato da un ottimo Koichi Sato. Probabilmente, è anche vero che lo spettatore che, per qualche motivo, non avesse visto il film di Eastwood potrebbe trovare più di un motivo di interesse, e anche di emozione, in questa pellicola. Ma l'urgenza espressiva che giustifichi questo remake, la lettura personale di una vicenda in sé già intensa ed emozionante, francamente non si coglie; ciò, senza nulla togliere all'indubbia, buona fattura della sua confezione.Movieplayer.it
3.0/5