Siamo a New York, in un locale in cui si fa musica dal vivo. Un corpulento chitarrista chiama sul palco la sua amica Greta, invitandola ad esibirsi con una sua canzone. La ragazza, tra mille indecisioni, decide di cantare un pezzo dedicato a chi, almeno una volta, si è sentito solo in una grande città. In quel momento pensa a sé stessa, alla disperazione provata quando il suo ragazzo, popstar in rampa di lancio, l'ha tradita lasciandola, eppure il messaggio arriva diritto al cuore di Dan, produttore musicale appena licenziato dalla sua compagnia. Ex talent scout, ex marito felice, Dan adesso ama la compagnia di birra e whisky e non vede altra via d'uscita da una vita ormai vuota. La voce di Greta è una bomba che esplode nel suo cuore e che lo spinge a tentare un'impresa quasi impossibile.
Abborda la ragazza e la convince a sottoporsi ad un provino per la sua ex casa discografica, certo di riuscire a recuperare lavoro e credibilità. L'appuntamento con i capi non si rivela fruttuoso, ma basta per rimettere in moto la creatività di Dan che decide di produrre il primo album di Greta, registrando i brani tra le strade di New York, con un paio di microfoni, e un gruppo di musicisti appassionati. Mentre l'album prende forma, Greta e Dan si legano sempre di più l'uno all'altra, tanto che la donna lo aiuta nel riprendere il rapporto con la figlia Violet, chitarrista in erba. E' un amore fortissimo a legare Greta e Dan? Forse sì, ma quello che conta non è tanto la definizione del sentimento che li unisce, quanto quello che riescono a compiere sulla spinta di questa emozione senza fine.
Sette note in rosa
Provate a parlare di musica con un irlandese e potreste ritrovarvi a discutere per giorni, settimane, mesi. Chiamiamolo pure dono, questo amore per le musica che il popolo dell'isola di smeraldo possiede, sicuramente è una caratteristica che lo differenzia da tutto il resto del mondo e che lo rende unico. Emblematica, in tal senso, è l'esperienza di John Carney, bassista dei The Frames, che, ad un certo punto della carriera, lascia gli strumenti e decide di usare le note in modo diverso. Nel 2006, dopo tre lungometraggi diretti, arriva il successo internazionale con Once, interpretato dal musicista Glen Hansard (uno della band dei The Commitments e frontman dei The Frames) e da Markéta Irglová; l'Oscar per la migliore canzone e una buona serie di premi conquistati in mezzo mondo non fanno che aumentare la curiosità attorno alla figura di questo cineasta sui generis, che, con sprezzo del pericolo, non ha avuto paura a girare senza autorizzazione alcune sequenze del suo film per le strade di Dublino. A diversi anni di distanza da quell'exploit, Carney torna al suo primo amore firmando una commedia sentimentale in linea con il suo stile spontaneo e brillante.
The Perfect Girl, with the perfect song
Film sentimentale voleva essere e film sentimentale è Tutto può cambiare, una commedia costruita su una coppia di personaggi con cui è davvero difficile non simpatizzare. Da una parte il produttore musicale deluso dalla vita e da un mondo lavorativo che ne ignorava le vere qualità, il suo occhio finissimo nello scoprire talenti, dall'altra l'inglesina dal cuore infranto, una cantautrice di razza, mollata sul più bello dal compagno di vita e incapace, fino all'incontro con Dan, a riconoscere la potenza della propria voce interiore, quella scintilla che solo lei possiede e che la fa splendere in un firmamento pieno di falsità. Attorno a questa coppia, incarnata con grande partecipazione da Mark Ruffalo e Keira Knightley, Carney costruisce un universo di personaggi non originale, ma totalmente funzionale alla storia. L'ex moglie di Dan (Catherine Keener) e la di lui figlia (Hailee Steinfeld), un'adolescente giustamente in crisi, fanno da contraltare all'ex fidanzato di Greta (Adam Levine dei Maroon 5) e al suo migliore amico (James Corden), un busker pieno di sogni. Non ci sono contrapposizioni tra buoni e cattivi, perfino la popstar fedifraga e vanesia che ha infranto il cuore di Greta ha tempo e modo di mostrare un inaspettato lato umano, forse è solo l'industria musicale ad uscirne con le ossa rotte. Sono i conflitti interiori dei protagonisti ad interessare il regista, la lotta contro i propri demoni e le paure, che tuttavia non sono mai dei mostri minacciosi.
Il difetto principale del film è essenzialmente nei ritmi di un racconto che in più di un momento si blocca in pause che hanno poco di evocativo, ma impediscono il respiro naturale della storia. Se nella prima parte l'andirivieni temporale e l'incrocio delle rispettive vicende dei protagonisti, mostrato con un montaggio ben costruito, mostra l'ottimo materiale di partenza di Carney, presentato con un punto di vista nuovo, originale e accattivante, il successivo sviluppo della trama paga dazio ai classici del genere, con il lento avvicinamento dei personaggi principali, la risoluzione positiva di ogni dilemma e, naturalmente, un lieto fine, qui nemmeno troppo consueto. La gestione del racconto sballata, o meglio non armonica, unita a qualche lungaggine di troppo, appesantiscono un film che, nonostante tutto, resiste alle sue stesse imperfezioni. E si sostiene perché alla fine ci ritroviamo complici di questo duo strampalato, un uomo e una donna che cercano disperatamente la propria voce in un mondo sordo, poco attento alla bellezza nascosta. Il pericolo più grande di oggi, sembra volerci suggerire Carney, è non accorgersi delle perle che possiamo trovare sulla nostra strada. E' un tentativo persino ingenuo quello del regista dublinese, che già con Once aveva dimostrato di essere immune alle critiche di eccessivo romanticismo, svelando una profondità non comune nel descrivere il microcosmo sentimentale di una coppia legata da un amore impossibile da spiegare, un sentimento che vive anche se non si riesce a concretizzare in una relazione; eppure, proprio questa ingenuità di fondo ce lo rende amabile.
Once (upon a time in New York)
Con ogni probabilità anche la storia più scalcagnata, ambientata a New York, diventerebbe una fiaba romantica, piena di colpi di scena. E' facile innamorarsi in una città del genere e di una città del genere; John Carney è perfettamente a conoscenza di questo meccanismo automaticamente indotto dalla visione dell'Empire State Building e lo rende parte integrante del suo film, che è (anche) un inno alla bellezza dei luoghi nascosti della Grande Mela. Dopo essersi fatto conoscere per le peregrinazioni di due innamorati sui generis per le strade di Dublino, Carney "regala" delle passeggiate chiarificatrici anche a Greta e Dan e consegna a noi spettatori una visione edificante della metropoli che non dorme mai.
Turn the page, maybe we'll find a brand new ending
Carney dà il meglio dà sé nelle sequenze girate in esterno, quelle relative alla registrazione dell'album di Greta, in cui conferma la sua capacità (non scontata e non comune) di far risplendere la magia del momento, mantenendo inalterata la freschezza della situazione, segno della innata attitudine a "farsi musica", a riprendere, cioè, il momento clou di un'esibizione in maniera spontanea e viva. Oltre ad essere un'ode a New York, però, il film è soprattutto una dichiarazione d'amore nei confronti della musica e del suo potere di veicolare i sentimenti più profondi di un essere umano. Badate bene, non si tratta di una banale esaltazione della canzonetta in cui cuore fa rima con amore (ammesso che possano essere definite canzonette), ma di quella perfetta empatia che si libera quando due persone scoprono che in una determinata melodia e in quella precisa sequenza di parole esiste un mondo comune di affetti.
Il linguaggio cinematografico utilizzato da Carney per verificare questa teoria può anche essere elementare, ma l'idea di due personaggi che camminano uniti da uno "sdoppino", ascoltando la propria playlist del cuore ha una sua originalità. Nella lunghissima traversata notturna di New York, Dan e Greta rivelano parte di sé attraverso le canzoni che ascoltano ogni giorno e in quel momento riescono a distaccarsi dal caos e dai rumori della città, per connettersi più profondamente l'uno all'altra. Musica come elemento narrativo sostanziale, quindi, che si manifesta in una colonna sonora molto bella, firmata da Gregg Alexander dei New Radicals, con contributi dello stesso Hansard. Riuscire a far cantare Keira Knightley e a renderla credibile nella sua parte non è impresa da poco, soprattutto in un lavoro del genere, ed è forse questo l'elemento più riuscito del film.
Conclusione
Tutto può cambiare è un'opera piacevole, sostenuta dall'estro di uno stropicciato Mark Ruffalo, eccellente nei panni del producer disilluso e dalla dolcezza di una Keira Knightley più morbida del solito. Se a questo aggiungete una serie di canzoni che si incollano al cervello e delle ambientazioni da stropicciarsi gli occhi, avete racimolato più di un buon motivo per vedere questo film.
Movieplayer.it
3.0/5