Recensione The Mole Song - Undercover Agent Reiji (2013)
The Mole Song, tratto da un manga datato 2006, mostra un Miike più disimpegnato e divertito che in passato: una parentesi ludica, in cui tuttavia il regista non rinuncia a inserire la sua estetica iper-contaminata, pur declinata in chiave più leggera e giocosa.
Reiji Kikukawa è una talpa, ma di tipo particolare: il giovane, infatti, è un poliziotto inetto e goffo, diplomato col minimo dei voti, che ha avuto però il torto, a causa del suo senso di giustizia, di pestare i piedi a un importante uomo politico. Il suo licenziamento in tronco pare inevitabile, ma i suoi superiori decidono di sfruttare la circostanza a proprio vantaggio: il giovane, ufficialmente fuori dalla polizia, è infatti il soggetto più adatto per infiltrarsi in un'importante organizzazione criminale, che ha in programma un gigantesco smercio di droga. Reiji dovrà così passare per tutti i riti di iniziazione della yakuza, conquistarsi la fiducia del boss Shuo Todoroki, e raccogliere informazioni sull'arrivo della partita di droga: grandi quantità di una temibile sostanza sintetica, che potrebbe mettere a rischio la vita di migliaia di giovani.
Raccontata in questo modo, la trama di The Mole Song - Undercover Agent Reiji, potrebbe far pensare al più classico degli yakuza movie, incentrato su quel tema dell'infiltrato che è da decenni motivo privilegiato del noir orientale (e non solo). Lo stesso Takashi Miike, d'altronde, regista eclettico e fuori dagli schemi per eccellenza, ha diretto in passato anche polizieschi dal taglio classico: l'ultimo, Shield of Straw, praticamente contemporaneo a quest'opera, è stato appena presentato nel corso dell'ultimo Festival di Cannes.
Eppure, basta uno sguardo ai titoli di testa di questo The Mole Song, per capire che, qui, siamo in ben altri territori: è, questo, il Miike più folle e sopra le righe, dall'estetica pop e iper-contaminata, ma anche sanamente disimpegnato e divertito. Questa nuova opera, presentata in concorso nell'attuale edizione del Festival del Film di Roma, si discosta sia dalla classicità del film da poco visto sulla Croisette, sia da esperimenti apparentemente analoghi, ma dalle ambizioni in realtà maggiori, come il precedente For Love's Sake. Con quest'ultima pellicola, questa Canzone della Talpa ha in comune la lunga durata (qui 130 minuti) e l'origine fumettistica della trama, ispirata a un manga del 2006 scritto dal fumettista Noboru Takahashi. L'impressione che tuttavia si ha, guardando il film, è che qui il regista nipponico si sia voluto soprattutto sfogare e divertire: una sorta di parentesi catartica, in cui le ossessioni e gli stilemi miikiani sono inseriti in un contenitore dai contorni talmente pop, e dalla consistenza così giocosa, da farne subito cogliere l'evidente (e non è un male) leggerezza. Miike non rinuncia a giocare coi generi, a inserire i luoghi comuni di varie tradizioni cinematografiche (e non) nel frullatore di una fantasia che, nel panorama del cinema contemporaneo, ha pochi eguali: c'è lo yakuza movie, ovviamente, ma anche il chanbara, il musical, il pinku eiga, gli onnipresenti manga. Su tutto, però, c'è qui un tocco più divertito e scanzonato, un'attitudine molto più ludica rispetto al passato, che rende anche la violenza, presente in dosi molto minori che in altre opere, decisamente più tollerabile anche da chi non vi sia avvezzo.
Miike, ovviamente, non rinuncia a dare un'impronta personale alla pellicola, e non rinuncia ad inserire riferimenti, più o meno diretti, ad alcuni suoi film del passato: gli inserti animati, realizzati con la plastilina, ricordano analoghe sequenze del suo Happiness of The Katakuris, mentre l'irresistibile canzone del titolo (a più riprese richiamata nel corso della trama) si lega alla sua passione, più volte espressa, per il musical. Tuttavia, la natura squisitamente giocosa del tutto, il suo carattere così scoperto e consapevole, rendono più facile lasciarsi trasportare dalle evoluzioni folli e sopra le righe della trama, e accettare la natura deliziosamente gratuita (e, di nuovo, non si interpreti la parola in senso negativo) dell'intera operazione. The Mole Song, va detto e sottolineato, è comunque tutt'altro che un film senza script, o una vuota sequela di gag e fuochi d'artificio filmici: anche qui, al contrario, il regista dimostra di conoscere bene il materiale che tratta, affidandosi a una sceneggiatura che, al netto degli elementi più surreali e demenziali, ha una coerenza e una precisa rispondenza ai canoni del genere. Miike sa dirigere, narrare per immagini e costruire un climax; anche laddove, come in questo caso, sceglie di non prendersi troppo sul serio. Il ritmo indiavolato, che strappa risate, e persino applausi, a una platea che sappia sintonizzarsi sul mood del film, rallenta leggermente nella seconda parte, in cui le pur caricaturali psicologie vengono in primo piano; per poi riprendere la corsa verso un pirotecnico finale, che lascia la porta aperta a un eventuale sequel. I 130 minuti di durata, comunque, non si sentono affatto. E il senso di soddisfazione, quando le luci in sala si riaccendono, è innegabile.