Ferie d'agosto
Per la stagione calda è assolutamente consigliato vestire camicie leggere e bere molta acqua. E' sconsigliato, invece, apparire per poi scomparire. _Questo è solamente uno dei molti messaggi lasciati da Fabrizio sulla segreteria telefonica di Nina che, dopo avergli regalato un frammento luminoso della sua quotidianità, sembra ben decisa a negare qualsiasi contatto possibile. Il problema è che la ragazza incontra serie difficoltà nel computare la parola amore, e non soltanto nei complicati ideogrammi cinesi ripetuti con ostinazione. Appassionata della cultura orientale, dama di compagnia del cane Omero e insegnante di canto, Nina vive il dramma e l'indecisione di chi colma la propria vita di troppi impegni generici per non rimanere "intrappolata" nell'unicità delle esistenze altrui. Il timore di perdere la propria eccezionalità attraverso una casa e una normale storia d'amore la conduce verso una sordità emotiva che, prima di chiunque altro, punisce se stessa. Ma arriva un momento nella vita in cui porsi degli interrogativi è quasi inevitabile. Così, di fronte alla questione dei propri desideri, Nina decide di volere tutto. Un'interezza che, forse, riuscirà a rintracciare proprio nell'immobilità di una Roma estiva e nella saggezza di Ettore, un ragazzino capace di aprire qualsiasi porta interiore, anche la più serrata.
Quando la regista Julie Taymor vide per la prima volta la zona dell'Eur ne rimase conquistata tanto da sceglierla come scenografia naturale di Titus, film storico dedicato alla figura del generale romano Tito Andronico. Ma, molto prima del suo arrivo nella capitale, il quartiere nato sotto la benedizione del fascismo nel 1935, aveva già sedotto il cinema italiano con un fascino metafisico capace di fondere antico e moderno nelle linee pure e mastodontiche dei suoi edifici. Sarà per questo che Michelangelo Antonioni scelse la sua vastità solitaria per ambientare L'eclisse con Monica Vitti e Alain Delon, mentre Fellini si lasciò conquistare dall'atmosfera onirica tanto da collocarvi l'ambientazione di Marcello Mastroianni ne La dolce vita. Non stupisce, dunque, che una regista esordiente come Elisa Fuksas si sia affidata all'esperienza cinematografica del luogo per dare enfasi e risalto ad una vicenda di crescita e ricerca personale. Anzi, al suo sguardo allenato ai segreti delle armonie architettoniche, l'Eur deve aver svelato una potenzialità capace di andare ben oltre la più semplice composizione scenografica. Ed, effettivamente, il suo Nina si presenta agli occhi dello spettatore come un'opera a tutto tondo dove, accompagnate da una selezione di composizioni mozartiane tra cui _Don Giovanni, Così fan tutte e Le nozze di Figaro, le forme geometriche del luogo si trasformano in co-protagoniste, il cui compito è quello di accompagnare i passi di Diane Fleri narrando le sue mutazioni interiori. In questo modo, rinunciando alla struttura classica della narrazione e riducendo al minimo ogni espressione verbale, la Fuksas prova a modellare la materia, gioca con le ombre delle arcate, insegue il buio lungo le lunghe scalinate e si lascia accecare dal bagliore del sole che riflette sul bianco del marmo. Allo stesso modo utilizza gli interni solitari di un appartamento che, insieme ad un esterno immobile, diventano l'elemento con cui il personaggio si confronta quotidianamente. In questi diversi spazi, ampio e potenzialmente infinito il primo quanto chiuso e claustrofobico il secondo, Nina vive i ritmi di un'esistenza quasi casuale in cui cerca, però, la possibilità di rintracciare un progetto preciso da seguire. Nonostante sia abituata a seguire l'andamento delle note musicali e l'armonia da queste creata, per lei riuscire a far ordine rinunciando al superfluo diventa un'impresa quasi insostenibile. E, in questa visione globale, la pulizia formale dell'ambiente amplifica senza mezzi termini l'approssimata confusione che regna nella quotidianità della donna. Se a tutto questo si aggiunge un'attenzione particolare per il colore più intenso che, dagli abiti ai momenti onirici contrasta il bianco e nero dominante, si comprende come la Fuksas abbia voluto raccontare la sua vicenda attraverso il linguaggio esclusivo dell'immagine e dell'estetica. Una scelta, questa che, se da una parte definisce l'originalità assoluta del lavoro, dall'altra si lascia andare ad un formalismo forse eccessivo che troppo rinuncia al calore della parola e dell'apporto umano.
Movieplayer.it
3.0/5